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"Boy Erased": crescere gay negli Stati Uniti del Sud

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Boy Erased. Vite cancellate
di Garrard Conley
Black Coffee, ottobre 2018

Traduzione di Leonardo Taiuti

€ 15 (cartaceo)
pp. 366

Vorrei che tutto questo non fosse mai accaduto, ma a volte ringrazio Dio che lo sia (dalla nota dell’autore)
C’è una cosa che dico spesso quando mi trovo a presentare o recensire un libro: quelle che più mi restano dentro sono le storie che, in qualche modo, mettono in discussione le mie certezze, mi destabilizzano, mi spingono a pormi domande talvolta scomode a cui non sempre riesco a trovare risposte e lì, tra i punti di domanda, sento più chiaro che mai il potere della scrittura e le ragioni che tanti anni fa mi hanno fatta innamorare dei libri, soprattutto della narrativa statunitense. Difficilmente vado alla ricerca di me stessa tra le pagine, non mi interessa più di tanto riconoscermi nei personaggi o ritrovare luoghi e situazioni in qualche modo familiari; certo, talvolta capita e con effetti interessanti, ma, in fondo, i libri che nel corso degli anni mi sono rimasti sotto pelle sono proprio quelli che mi hanno permesso, in una forma o nell’altra, di uscire dalla mia comfort zone, quelli in cui i dubbi, le domande rimaste senza risposta superano di gran lunga certezze e verità spacciate per assolute.
È quanto successo, in parte, anche con Boy Erased, il memoir di Garrard Conley, in Italia da poco pubblicato per Black Coffee, una realtà indipendente con all’attivo diversi titoli molto interessanti del panorama letterario contemporaneo nordamericano. La ragione più immediata per cui Conley scrive questo memoir è raccontare – e, quindi, in qualche modo cercare di elaborare – la sua esperienza all’interno di LIA (Love in Action) la comunità nella quale entra di sua iniziativa per sottoporsi a terapia riparativa: in altre parole, per essere “curato” dall’omosessualità. Un tema importante e ancora vergognosamente attuale, considerando che gli eventi narrati si sono svolti nel 2004 ma la questione con realtà simili a LIA resta ancora aperta, non soltanto negli Stati Uniti. È questo, come dire, il cuore della narrazione, il tema intorno a cui si sviluppa il memoir, ma, pagina dopo pagina, il racconto si apre a numerose altre riflessioni, spingendo a confrontarci con una realtà di cui forse non abbiamo avuto particolare esperienza diretta o meno, a rivedere le nostre convinzioni e osservare la vicenda da punti di vista più complessi di quello che ci si sarebbe aspettati.

La prima cosa da considerare, infatti, è l’ambiente – culturale e famigliare – in cui Conley è cresciuto e che ne ha determinato le scelte, marcando in maniera tragicamente negativa il proprio orientamento sessuale e la sua stessa identità: per quanto ci piaccia pensare all’America progressista delle grandi città – un’immagine filtrata da cinema e letteratura – la realtà è spesso più complessa e una cittadina dell’Arkansas è meno liberale di quanto forse immaginavamo. Lo è, soprattutto, all’interno di una comunità religiosa, incapace di accettare tutto ciò che non comprende, che considera diverso, deviato, quindi da nascondere e curare. Conley, cresciuto in una delle tante comunità battiste del Sud, è, inoltre, figlio di un pastore diventato negli anni un punto di riferimento per i suoi concittadini e sempre più popolare in tutto lo Stato, un personaggio pubblico quindi e un modello genitoriale con cui diventa sempre più complesso confrontarsi.

Basta un niente a incrinare il fragile equilibrio su cui quella realtà si fonda. E ciò che accade a Conley, all’epoca dei fatti narrati appena diciannovenne, è tutt’altro che un niente e manda in pezzi ogni cosa. Garrard, l’unico figlio del pastore, il giovane uomo su cui la famiglia e la comunità tutta hanno grandi aspettative, è gay: questo e non la violenza sessuale subita – che lui stesso sceglie di non rivelare, perché in un certo senso passata in secondo piano rispetto al vortice di eventi scatenati dalla scoperta dei genitori – manda tutto in frantumi, costringendo i Conley a confrontarsi con una realtà complessa e per la quale sono del tutto impreparati. In quest’ottica, appare più chiara la ragione per cui è lo stesso Garrard a decidere di entrare nel programma di due settimane di LIA, per cercare di “curare” quella parte di sé che non riconosce né può accettare. Ciò che racconta in questo memoir, mediante una narrazione su differenti piani temporali e dal gusto romanzesco, è, quindi, non soltanto l’esperienza all’interno di quella che lui stesso definisce una sorta di « Alcolisti Anonimi per persone affette da, come le definivano i nostri consulenti, “perversioni sessuali”. (p. 24)», una testimonianza diretta di una realtà di cui si parla ancora troppo poco e che già di per sé giustificherebbe le ragioni del libro e l’impegno dell’autore nel divulgare la propria storia. No, Conley non si limita a questo, ma gettando finalmente luce su un sistema ipocrita e dannoso come LIA e numerose realtà simili, usa la propria personale esperienza per confrontarsi – e, di conseguenza, spingere il lettore a porsi egli stesso delle domande – con altre importanti tematiche intrecciate al discorso sull’omosessualità quali fede, famiglia, affetti, identità stessa. E, come si è accennato poc’anzi, sulla violenza:
[…] ricordo perfettamente dei dettagli insignificanti, come le volute del legno alla base del letto di David, il rumore delle porte in corridoio che si chiudevano man mano che le altre matricole tornavano in camera dopo una serata di bagordi. Ma l’atto in sé no, quello non me lo ricordo.
Non riuscirò mai ad avvicinarmi abbastanza, non mi rivedrò mai in quel momento. Per molto tempo non volli neanche ammettere di essere stato violentato. (p. 131)
Suona così simile a tante, troppe, testimonianze di violenza che abbiamo sentito e letto negli anni e in queste poche righe Conley condensa tutto il dolore di chi ha subito un atto terribile – no, non voglio usare la parola vittima.
Un evento già di per sé devastante, ma che per la famiglia di Conley – in quel momento ignara di quanto accaduto – significa il confronto con l’omosessualità del figlio:
Non ero riuscito a dire loro che cosa mi aveva fatto David. Ero stato anticipato e il fatto che fossi omosessuale passava in primo piano rispetto alla violenza che avevo subito o, peggio, sembrava che quell’atto fosse una diretta conseguenza del mio essere gay, come se me la fossi andata a cercare. In ogni caso avevo umiliato la famiglia. (p. 171)
“Avevo umiliato la famiglia”: con il suo essere gay, con le aspettative tradite, i dubbi sulla fede, l’incapacità di essere quello che tutti si aspettano da lui. Perché da Garrard ci si aspetta infatti che un giorno, non troppo lontano, diventi come suo padre: carismatico, devoto a Dio e alla sua comunità, un buon padre e marito, una vita semplice, regolare. Come si fa a costruirsi una vita simile se sei gay, hai ambizioni da scrittore, un rapporto complesso con la fede e un carattere poco incline alle orazioni pubbliche?
È appunto a questo che mi riferivo all’inizio dicendo che questo libro si apre a molti spunti di riflessione, a partire dalla tematica fondamentale al cuore della storia e che, soprattutto, lascia in noi più domande e dubbi che certezze. Perché Garrard, in fondo, si fa solo testimone con la propria storia, ma non osa mettersi in cattedra e dispensare verità spicciole o dare giudizi; scrivere della sua esperienza è sicuramente servito ad alzare il velo su una realtà ancora poco nota, e per l’autore forse a cercare di fare maggior chiarezza e venire a patti con quanto accaduto, per noi lettori a metterci di fronte alla complessità della natura umana e, appunto, interrogarci su noi stessi.
Boy Erased si fa, quindi, racconto di una sessualità per molto tempo vissuta in maniera conflittuale, di scelte estreme dettate dalla paura e dal desiderio di accettazione, di quanto stretto sia il rapporto che intercorre tra orientamento sessuale e identità stessa. E, ancora, dei dubbi sulla propria fede – una parte, quest’ultima, davvero interessante, che meriterebbe un approfondimento a sé – e del rapporto complicato con una figura paterna ingombrante, complessa, della responsabilità come unico figlio ed erede. Ancora una considerazione a tal proposito: sarebbe stato più facile per noi lettori – e, probabilmente, per Conley stesso – comprendere la scelta del protagonista e i timori di fronte alla propria sessualità se l’ambiente famigliare nel quale è cresciuto rispecchiasse uno stereotipo più “adatto” ad immaginare le difficoltà di un ragazzo gay costretto a seguire una terapia riparativa: violenze, abusi, mancanza di opportunità, sono probabilmente il background che avremmo più facilmente immaginato. La realtà, la vita, è più complessa e la famiglia di Garrard è semplicemente quella di un predicatore battista, certo a sua volta con una storia alle spalle complicata e in quel caso violenta, e, soprattutto, di un uomo che come tale è pieno di imperfezioni e debolezze. Forse il mondo non si divide così nettamente in buoni e cattivi, perché se così fosse e il padre di Garrard potesse essere inserito nella seconda categoria ecco che le cose apparirebbero meno complesse:
[…] mi aveva trascinato nel suo ufficio per minacciarmi col pugno alzato. […] Fallo, avevo pensato io. Fallo, e sarò libero. Fallo, e non dovrò più amarti. Ma non aveva fatto niente. Gli erano venute le lacrime agli occhi, una era rotolata lungo la guancia, fino al mento. Tutto lì. Se piangesse per sé stesso o per il figlio gay, non lo sapevo. (p. 195)
La realtà, gli affetti, sono appunto molto più complessi. Probabilmente alla fine della lettura non sveleremo del tutto il “mistero” sulla vicenda di Garrard Conley, lui stesso dopotutto non ha ancora trovato tutte le risposte, neanche a distanza di anni. Sicuramente, questo si, saranno numerosi i dubbi e gli spunti di riflessione con cui saremo spinti a confrontarci: omosessualità, violenza, famiglia, identità, fede e comunità. E, infine, il potere salvifico delle parole, la necessità di raccontare per provare a comprendere e avvicinarsi alle persone. È questo, in una forma o nell’altra, per affinità o differenze, a farci arrivare al cuore di una storia.
[…] mi rendo conto che si, la mia sarà anche stata un’esperienza particolare, ma di sicuro non avulsa dalla realtà. Ogni giorno le minoranze subiscono il controllo e i soprusi di vasti gruppi di persone, siano esse meschine o benintenzionate, e ogni giorno in tutto il mondo nuove tensioni politiche scaturiscono da idee pericolose. Ciò che non capisco, e forse non capirò mai, è come ciascuno di noi sia finito tra le grinfie del movimento ex-gay, cosa lo abbia spinto a varcare le porte di Love in Action. (p. 320)
Debora Lambruschini