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Il calcio italiano: vita, morte e miracoli di un intero popolo

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Nulla al mondo di più bello
L'epopea del calcio italiano tra guerra e pace 1936-1950
di Enrico Brizzi
Editori Laterza, 2018


pp. 316 
€ 20 (cartaceo)


Leggere Nulla al mondo di più bello. L'epopea del calcio italiano fra guerra e pace 1938-1950 di Enrico Brizzi uscito per Laterza nelle settimane clou del Mondiale di Russia è un esercizio perfetto per comprenderne, ancora più, la quasi totale perfezione. Infatti questo volume di Brizzi fa parte di uno studio, attento e rigoroso (nonché pressoché inedito con tale mole di documentazione) del nostro calcio, dagli albori ai, presumibili, giorni nostri. Già perché se si prendono i precedenti Vincere o morire. Gli assi del calcio in camicia nera e Il meraviglioso giuoco. Pionieri ed eroi del calcio italiano 1887-1926, ci si accorge di come l’autore bolognese, quasi facendo il paio con la professione del padre, docente di storia, abbia tutta l’intenzione di divenire l’alfiere (dovremmo dire forse il Virgilio, ma non vogliamo scomodare paragoni troppo illustri) del gioco che più affascina gli italiani da, praticamente, sempre: quel giuoco del calcio che, forse mai, è stato gioco ma è stato anche, e soprattutto, vita, morte e miracoli di un intero popolo.

Ed ecco allora che questo terzo volume si inserisce perfettamente in tale analisi, presentandoci forse il momento più fulgido e brillante del nostro calcio sino ai fasti degli anni Ottanta. Infatti il calcio italiano, colto tra la seconda metà degli anni Trenta e il 1940 (grosso modo tra l’aggressione al Regno Etiope al 2 giugno 1940, con la dichiarazione di guerra a Francia e Gran Bretagna), è il calcio dominante al livello mondiale, con la Nazionale capace di vincere due edizioni consecutive della Coppa Rimet (1934, molto discussa e 1938, vittoria invece fulgidissima), impresa che riuscirà soltanto al Brasile di Pelé e Garrincha tra il 1958 e il 1962 e con i club, tra la Juventus del quinquennio, il Bologna “lo squadrone che tremare il mondo fa” e l’inedito Torino di Vittorio Novo a spartirsi la gloria a livello italiano e continentale.

Una vera e propria epopea quella del calcio italiano di quegli anni, appoggiato anzi sospinto dal Regime Fascista che, sin dagli anni Trenta ne aveva intuito e sfruttato a fini propagandistici il grande successo tra le classi popolari. Chi inneggia al gioco del calcio dice che “le disfide a pallone sono oneste contese tra giovani italiani che, in modo gagliardo, si sfidano per la vittoria”, chi lo critica tira fuori l’antico motto “panem et circenses”. Va detto a conti fatti che, stando almeno ai dati presentati da Brizzi, i giocatori italiani di questa decade poco si interessano di politica e di propaganda, nell’uno o nell’altro senso. Infatti quello davvero ad affascinare Brizzi è il racconto delle singole vicende, dei Piola, dei Meazza, dei Colaussi, degli Olivieri, ovvero dei grandi campioni che, spesso e volentieri, partiti poveri anzi poverissimi nelle varie province italiane diventano campionissimi di importanti club, il cui nome farà, letteralmente, il giro del mondo.

Il libro si, per così dire, interrompe nel 1950, e più precisamente nel maggio di quell’anno, ovvero poco meno di un mese prima il Mondiale del Brasile, la prima edizione della Coppa Rimet dopo gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Molto si è scritto di quegli anni del Dopoguerra legando in maniera indelebile (forse ancora di più che durante il Ventennio Fascista) la Ricostruzione anche a figure sportive come quelle di Coppi&Bartali o a squadre come il mitologico Grande Torino di Valentino Mazzola. Il Grande Torino molto più che una semplice squadra: era ed è innanzi tutto un’idea, un’idea di calcio proletario e comunitario da un lato e, dall’altro, tutto estro e carattere. Il “quarto d’ora granata”, segnato dall’arrotolarsi delle maniche di Mazzola, è il simbolo della voglia degli italiani di ripartire, di, per l’appunto, rimboccarsi le maniche della camicia e, maceria dopo maceria, ricostruire una nuova Italia. Si spera più giusta, sicuramente nuova, almeno all’apparenza.

Nella parabola biografica di Valentino Mazzola, di certo il giocatore italiano, assieme a Peppino Meazza, più rappresentativo sino ai tempi di Gianni Rivera, è esemplare per comprendere come si viveva a quell’epoca. Calciatore operaio all'Alfa Romeo di Arese, ogni giorno Mazzola si fa, in bici, oltre trenta chilometri all’andata, nel buio completo delle campagne lombarde illuminate solo da una fioca dinamo, e trenta chilometri al ritorno per tornare a casa. Un campione operaio, ingaggiato assieme al nerboruto Loik (un altro grande italo-istriano di quell’assoluta fucina di talenti che fu in quegli anni il Friuli con le sue propaggini in Dalmazia e Istriai) dall’ambizioso Venezia di Volpi, già, proprio l’inventore del Festival del Cinema a cui è stata intitolata la coppa per il miglior attore protagonista.

Si comprende ora bene come Nulla al mondo di più bello. L'epopea del calcio italiano fra guerra e pace 1938-1950 di Enrico Brizzi sia molto più di un semplice libro sulla storia del calcio: è una trattazione ampia a sfondo storico/sociale dei costumi degli italiani, di come essi intendono lo stare insieme e la gestione del proprio Paese. Tra incredibili favole, come quella dei “Pompieri di La Spezia” vincitori del Campionato di Guerra del 1942-1943 e formidabili squadre come il primo grande Brasile di Leonidas e compagni del ’38 (sconfitto, guarda caso proprio dagli azzurri, nella semifinale del mondiale di Francia) il libro si legge che è una meraviglia. E lo si apprezza ancora di più portandolo con sé in quest’anno di Mondiali, Mondiali senza l’Italia, certo, ma con il medesimo carico di emozioni, sorprese e grandi azioni di cui solo il calcio è capace. Già il calcio, il gioco- non gioco più bello del mondo: su questo né Brizzi né noi abbiamo alcun dubbio! 

Mattia Nesto