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Beati quei tempi che non hanno bisogno d'eroi

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Un eroe dei nostri tempi
di Michail Lermontov
Traduzione e cura di Paolo Nori
Marcos y Marcos, 2017

pp. 253
€ 14,00

«Imbecille o scellerato, non so; ma quel che è certo è che son degno di compassione […]: in me l'anima è guastata dal mondo, l'immaginazione è inquieta, il cuore è incontentabile; non mi basta niente; alla tristezza mi abituo altrettanto facilmente che al piacere, e la mia vita ogni giorno si fa più vuota; mi è rimasto un unico rimedio: viaggiare.»
Sono più affascinanti, i personaggi negativi?
Il disprezzo che proviamo per loro, o la pena, o l'odio, sono sentimenti incomparabilmente più complessi dell'empatia per una povero derelitto, o del genuino affetto per un integerrimo benefattore.
Un disprezzo che si mescola quasi a una morbosa curiosità di indagare cosa li abbia resi tali, ma anche cosa li spinga a continuare sulla loro (cattiva) strada.
Il Grigorij Aleksandrovič Pečorin raccontato da Michail Lermontov nel suo Un eroe dei nostri tempi ci viene presentato, per la primissima volta, come «un gran bravo ragazzo, solo un po' strano».
Strano. Che poi è effettivamente l'unico aggettivo che pur non dicendo nulla, lo descrive meglio.
Perché un ufficiale russo che seduce una giovane principessa soltanto per prendersi gioco di lei e per sottrarla ad un compagno, uno che gioca con la vita e la morte, completamente autocentrato sulla soddisfazione di una curiosità che spinge a saggiare il limite estremo dell'animo umano, senza rispetto per gli altrui sentimenti - ma si sospetta neanche per i suoi, che forse non ha, o che più probabilmente semplicemente non è in grado di provare - in fin dei conti, come lo si descrive con un aggettivo? Malvagio?
Forse.
Il suo essere incapace di provare alcun sentimento non lo colloca certo fra le persone con cui saremmo desiderosi d'avere una storia d'amore o amicizia, ma in un certo qual perverso modo lo rende incolpevole. Eppure non così degno, in fin dei conti, della pena che pure proviamo per lui.
È un personaggio complesso e, direi, immorale fino al fastidio, molto contemporaneo, pure essendo protagonista di un libro della metà dell'Ottocento solo ora tradotto e curato per Marcos y Marcos dal poliedrico Paolo Nori.
Il quale in un'ottima postfazione ci toglie dall'impaccio e dal disagio che proviamo di fronte a questa figura, collocata in un fondale di ussari, samovar, dame dell'aristocrazia pietroburghese, colbacchi e polvere da sparo, cavalli e rupi selvagge, con quattro osservazioni fondamentali alla comprensione, sullo stile dell'autore e il contesto dell'opera (che però non essendo io come Pečorin non vi anticiperò).
Questo - così definito dall'autore - «ritratto dei vizi di una generazione nel pieno del loro sviluppo» è un testo-gioiellino, avventuroso anche se non di facilissima lettura, per gente a caccia di sensazioni e sensibilità romanzesche.
«Non avere paura. Tutto al mondo è senza senso, la natura è stupida, il destino è un tacchino e la vita è una copeca.»

Giulia Marziali