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L'invincibile stagione dell'amore oltre l'inverno di Isabel Allende

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Oltre l'inverno
di Isabel Allende
trad. Elena Liverani
Feltrinelli, 2017

pp. 304
€ 18,50


Nello scantinato gelato di una Brooklyn nella morsa di una delle più terribili bufere degli ultimi anni, si incontrano e si intrecciano le vite di tre individui molto diversi fra loro. Richard, ipocondriaco nel fisico e nei sentimenti, Lucia energica e pasionaria e la spaurita piccola Evelyn, motore involontario dell'azione.
Che è un'azione pretestuosa: una finta trama insolitamente thriller serve a Isabel Allende per raccontare ancora una volta nel suo ultimo libro Oltre l'inverno, appena uscito per Feltrinelli e tradotto da Elena Liverani, quello che da sempre, come scrittrice, le sta a cuore.
Ovvero l'intrecciarsi della Storia, del Sudamerica, principalmente - ma stavolta anche con uno sguardo alle vicende degli Stati Uniti di Trump - con le storie, minime ma fortissime, dei suoi personaggi.


L'atmosfera sulle prime potrebbe sembrare meno magica del solito, quasi un volersi avvicinare al Bolaňo degli ammazzamenti alla frontiera col Messico, al Marquez amaro dei sequestri di Medellìn.
Ma, fortunatamente direi, non è così.
La critica che si potrebbe muovere (e che qualcuno probabilmente muove) a Isabel Allende è che neanche se lo volesse potrebbe essere un Marquez o un Bolaňo; senza dubbio il suo pregio è che non si è mai candidata davvero ad esserlo.
Ha continuato sempre a sviluppare, invece, quello che negli anni è diventato il suo marchio di fabbrica, che l'ha resa cara a intere generazioni di lettori: quella capacità nel raccontare con passione e con una scrittura calda e viscerale la dinamica di opposizione fra i sessi, e quella lotta logorante per incontrarsi – talvolta - in un attimo perfetto d'amore straordinario incastonato nel fluire degli eventi.
Anche in questo libro, al netto del dato autobiografico (una storia di sentimenti tardivi dedicata al suo nuovo compagno, incontrato a 74 anni), gli uomini sono divisi nelle due sempiterne categorie: gli eroi che sono giovani e belli e che fanno invariabilmente una brutta fine, e tutti gli altri, goffi, inadeguanti, timorosi, (auto)distruttivi e soprattutto totalmente incapaci d'amare.
Poi però ci sono le donne (i ritratti di donne di Isabel Allende dovrebbero diventare patrimonio dell'umanità) folli, vitali, forti allegre e pratiche, donne che sanno sempre trovare un modo per tenere insieme tutto quanto.
E c'è l'incontro, lo scambiarsi di pelle, storie, malinconie, dolori e rimedi.

La meravigliosa Isabel insomma la magia la crea anche stavolta, anche nella Brooklyn dei giorni nostri, facendola risorgere dal passato devastato di tre anime migranti, da un compito pericoloso e inaspettato da portare a termine, dalla sporcizia, dal freddo e dalla paura.

Anche se con una tendenza molto più pacata, senile, la Allende resta maestra delle storie d'amore e di lotta che hanno il respiro dell'epica, la struggente malinconia della ballata, e un finale, neanche a dirlo, da vecchio film in bianco e nero.
Per il quale io però le sono sempre grata. Ché oggi come oggi il lieto fine non è più tanto scontato, manco al cinema.

Giulia Marziali