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Straniamento e denuncia nella Ghazzah Street saudita di Hilary Mantel

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Otto mesi a Ghazzah Street
di Hilary Mantel
Fazi Editore, agosto 2017

Traduzione di Giuseppina Oneto

Pagg. 334 
€ 19 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Il primo impatto con questo romanzo è stato folgorante. Lo stile e la trama sono avvincenti, il ritmo è incalzante. Poi si riflette sul messaggio che la scrittrice ci lascia del contesto politico in cui è maturato questo romanzo, a quanto sia duro per le donne, in Arabia Saudita, l’affermazione del proprio io, pur con gli spiragli che in questi giorni leggiamo sulla cronaca, che parlano di conquiste come la possibilità di guidare l’automobile, la ricerca dell’affermazione di se stesse, attraverso molte proteste. 

Leggendo il libro di Hilary Mantel bisogna però tener conto del contesto in cui la scrittrice lo ideò; era la fine degli anni Ottanta, quando la Mantel si ritrovò ospite dell'Arabia Saudita, grazie al lavoro del marito. 
Oltre alla scelta di base, il racconto di un luogo non occidentalizzato, spesso additato  e stigmatizzato nel pensiero occidentale per la grande arretratezza in materia di diritti e di pari opportunità, conosciuto per i grandi capitali utilizzati per sovvenzionare ideologie religiose, il romanzo ha una connotazione particolare nell'utilizzo del tempo e dello spazio

Del tempo a ritroso che si vive in quel contesto l'autrice ci avvisa nella nota introduttiva sul calendario islamico, quasi un monito sull'arretratezza che renderà distanti i due mondi, quello occidentale e quello orientale. Analizzando gli elementi principali del plot, è interessante notare soprattutto il ruolo fondamentale dello spazio sul tempo.
Gli altri si aspettano chissà quali racconti, ma la verità è che, trascorsa qualche settimana in un posto, non è tutto quel chissà che e, se anche lo fosse, non lo sarebbe in un modo comprensibile o importante per chi è rimasto a casa. Chi rimane, in generale, non è interessato alle esperienze dell'altro.
È come se lo spazio avesse un ruolo di protagonista indiscusso, capace di determinare l’azione nel suo dilatarsi o contrarsi, capace di inghiottire il tempo, annullando ogni consapevolezza e ogni certezza, ogni conquista e ogni progresso. La protagonista può acquistare consapevolezza solo riuscendo a piegare in una sorta di spazio esplorato tutto ciò che sfugge apparentemente al suo controllo, e questo si nota soprattutto per alcuni indizi che la scrittrice semina via via nel libro. 

In primo luogo il suo lavoro. La protagonista, Frances Shore, è infatti una cartografa, che viene catapultata improvvisamente a Gedda, in Arabia Saudita, per seguire il marito Andrew, architetto. Seppur già lontana dalle proprie coordinate spaziali, in quanto dopo il matrimonio si trasferisce in Africa col marito, la nuova realtà è oltremodo incompatibile con il suo modo di intendere lo spazio fisico e mentale. Questo la porta a perdere ogni punto di riferimento, vita reale e immaginario coesistono al tempo stesso, e lo spazio fisico iniziale è costituito da un appartamento con le porte e le finestre murate, che rendono la nuova inquilina prigioniera all'interno del palazzo in cui vive, straniera, in quanto ospite di quel paese, e vittima delle convenzioni religiose, in quanto donna. 
Ma evidentemente i marciapiedi non sono fatti per camminarci sopra, pensò. Gli uomini guidano; le donne stanno a casa. I marciapiedi sono una zona cuscinetto per evitare che le macchine sfondino le case.
Per poter comprendere la situazione in cui si trova, giorno dopo giorno, la protagonista cercherà un modo per tracciare una propria mappa della città, seppur tra pericoli e difficoltà, determinate dai vincoli religiosi, dalla cultura predominante e dal suo carattere ribelle, che si scontra con il contesto. La cultura del luogo è assolutamente inaccettabile per la protagonista e questo la porterà a non accontentarsi dei divieti, a voler andare oltre le convenzioni e ad insospettirsi sempre più di fronte ad ogni dettaglio, pacificamente accettato da tutti coloro che le stanno intorno, e nel contempo a guardare con una visione diversa ogni singola persona che rientrerà nel suo raggio d'azione. 

E così quello che all'inizio ci sembra una marcata diffidenza, la porterà a intuire che dietro ad ogni muro si nasconde un segreto, un’inconfessabile realtà, mascherata sotto norma e apparenza, fino a sospettare che al piano di sopra avvengano delle losche manovre. Un sospetto che la donna alimenta e cerca di provare, fino a restare quasi coinvolta in un incidente diplomatico, che culminerà con l’omicidio, presunto o reale, di un innocente. 

Lo stile del libro è intrigante, il contesto claustrofobico nel quale si muovono i personaggi, vittime del proprio carattere, delle apparenze e della società, è capace di interessare il lettore e portarlo in quella spirale di paranoia ossessiva che coglie la protagonista e si trasmette dalla pagina al lettore. 

In una recente intervista la Mantel ha confessato di non essere più potuta tornare nel Regno Saudita proprio in seguito alla pubblicazione di questo romanzo, in quanto persona sgradita; e non fa segreto all'interno del libro, seppure si tratti di un romanzo, delle condizioni di sottomissione a cui sono costrette ancora oggi, come all’epoca del suo viaggio, le donne saudite. Il romanzo resta un bell’esempio della scrittura della Mantel, seppur totalmente diverso dagli altri, con meno analisi storica dei precedenti, probabilmente per la forte esperienza vissuta in prima persona, che resta più legata ad una dimensione psicologica, e a tratti troppo carica di pregiudizi, che non ne inficiano la dimensione creativa, accomunandolo al genere del noir.

Samantha Viva