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In viaggio a Puntazza, dove la morte è l'unico modo per scoprirsi umani

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Puntazza
di Simone Innocenti
Roma, L'Erudita, 2016

pp. 102
13 euro


Puntazza è un libriccino che sfiora le cento pagine: una raccolta di racconti che somigliano ad affreschi immobili, dipinti e lasciati di fronte all’ignaro spettatore, come un monito o un consiglio. Puntazza è un paesino di provincia, di quelli che in Italia trovi appena volti l’angolo di un cartellone stradale: un quartiere di palloni lasciati a sgonfiarsi sui marciapiedi, un giardino parco giochi per bambini che alla luce dei lampioni si riempie di delinquentelli, vagabondi e nullafacenti. Puntazza è amore per la cronaca, quella asciutta dei comunicati che arrivano in redazione dalla questura, quella ricca di pieghe oscure e rimpianti esacerbanti della quotidianità.

Puntazza è tutto questo, nella sua semplicità di libriccino di appena cento pagine, una narrazione che pare illuminata dall’accecante buio della notte, perché non lo puoi leggere se non al buio, rischiarata dall’abat jour o da un lampione esterno.
Ma andiamo con ordine: Puntazza è la raccolta di racconti (otto, a voler essere precisi) uscita dalla penna di Simone Innocenti, scrittore e giornalista toscano, che scrive di cronaca nera per il Corriere Fiorentino. E già queste due informazioni, che sia giornalista di nera e che sia fiorentino, si rivelano preziose (per ovvie ragioni) nell’affrontare la lettura.

Impossibile negare, infatti, che nelle spietate immagini di questi racconti, dove incontriamo amici che uccidono per avidità, amori perduti a causa della morte o conquistati grazie a omicidi a sangue freddo, si ritrovi il taglio tipico della nera, lo sguardo che si fa tuo quando da anni sei abituato a maneggiare dispacci di questure e caserme: l’occhio che cerca il mistero, che osserva la miseria umana laddove essa si camuffa da normalità.
Innegabile, ancora, quel perenne senso di morte che sembra costituire il filo conduttore degli otto racconti anche quando di esplicito decesso non si parla: a morire può essere un uomo, come un amore, la speranza di un roseo futuro, la memoria del passato. In tutti i racconti è dunque la Nera Signora la vera protagonista. Ma si tratta di un protagonismo che non resta sul piano formale, né su quello meramente giornalistico. Non si parla di morte con sadico autocompiacimento, né con il distacco professionale che ci si aspetterebbe da chi, per lavoro, ci entra in contatto quotidianamente.
La morte, nei racconti di Simone Innocenti, è lo strumento che fa luce sulla dimensione umana della storia e dei suoi personaggi. È come se, attraverso di essa (reale o simbolica che sia), si liberano nell’aria quelle motivazioni fondamentali che sottendono all’esistenza. E allo stesso tempo, la morte è presentata come un atto assolutamente inutile, completamente privo di senso e, persino, poco importante: nel primo racconto che dà il nome alla raccolta, la morte di un amico si può decidere nella frazione di un attimo, per un gratta e vinci nascosto; è anche la rapidità del passaggio dalla vita alla morte a renderla un atto banale, immediato, non pensato.
Quello che il cielo ha da dire alla terra si sente, ma nessuno sa ripeterlo. Non c’è chi possa riferire a un altro la bestemmia del tuono, le bugie della pioggia alle zone aride, il crepitio sconcio del fulmine nell’aria grassa di nubi. Quello che il cielo sa dire alla terra non ha testimoni, solo complici. (p. 23)
Dall’altro lato, come accennavo all’inizio, da toscana quale sono, non posso non scovare nello stile narrativo di Puntazza i piccoli dettagli che rivelano l’identità di un territorio: quel parlare spiccio che è più spirito di genuinità che volgarità, lo sguardo solo apparentemente cinico sull’esistenza, l’ironia insita anche nel dramma.
Ciò che senz’altro rappresenta l’elemento più affascinante e coinvolgente di questo libro è la sua autenticità: sono storie e personaggi che potremmo trovare domattina, alla pagina della cronaca cittadina, ma indagati adottando una prospettiva che non è più giornalistica, bensì squisitamente narrativa: ecco allora che dietro la storia si intravede la riflessione, dietro il personaggio l’ombra delle sue manie e dei piccoli dettagli che lo rendono umano. Ma, soprattutto, dietro il giornalista si scopre l’uomo.
Ho sonno e tu non puoi capire. Tu che stai leggendo non ci arrivi proprio a capirlo. Tu che stai leggendo mi hai fatto compagnia fino a ora: sei stao il mio orizzonte, portandomi a spasso con te. Eravamo in viaggio, te ne sei accorto? (p. 72)

Barbara Merendoni