Il tesoro
di Grazia Deledda
Prefazione di Gonaria Floris
Ilisso, 2007
pp. 251
Cartaceo 11,00 euro
E-book 4,99 euro
Chi non vorrebbe avere la fortuna di imbattersi in un tesoro? Niente di metaforico, si badi, ma un vero e proprio forziere colmo di denaro da rintracciare e dissotterrare, ammantato di avventuroso mistero; insomma una di quelle fortune di cui si legge sempre nei libri, capaci di cambiare la vita a chi ne entri in possesso e di risolvere per sempre ogni problema di natura materiale. Annunciato da un’intrigante missiva firmata Victor Honoré – vera? fasulla? lo si scoprirà solo verso la fine della storia, articolata in quindici capitoli – è proprio lui, Il tesoro, o meglio il desiderio della sua esistenza e del suo rinvenimento, che unisce i destini delle famiglie Brindis e Bancu, protagoniste di questo romanzo deleddiano pubblicato una prima volta nel 1897 da Speirani e riedito poi da Treves nel 1928, sulla scia della popolarità della scrittrice da poco divenuta gloria nazionale in seguito alla vittoria del Premio Nobel per la Letteratura nel 1926. E tuttavia, in questa storia articolata e complessa, animata da una moltitudine di personaggi, la «solida cassetta d’acciaio, con serratura invisibile» e contenente «40.000 Luigi in oro (lire italiane 800.000)» appare nel contempo quasi un espediente narrativo, o meglio ancora una sorta di “mezzo di contrasto” utile a illustrare «uno spaccato della società nuorese di fine ‘800 nei suoi principali ambienti e mentalità», come ben evidenzia Gonaria Floris nella sua Prefazione all’edizione Ilisso.
Sebbene intrecciate dalla prospettiva di arricchirsi e migliorare le proprie condizioni, le esistenze dei Brindis, possidenti di estrazione paesana, e dei Bancu, appartenenti all’ambiente signorile cittadino, sembrano difatti procedere su binari paralleli, secondo un andamento che a tratti ricorda un montaggio alternato di ascendenza cinematografica, con la successione dei capitoli quasi sempre corrispondente a un’alternanza di ambientazione e personaggi. Proprio in questo continuo mutamento di focalizzazione la scrittrice ha modo di seguire i piccoli e grandi drammi di entrambe le famiglie e dei singoli componenti: come la vedovanza improvvisa del giovane Alessio Brindis, che ritrovatosi ragazzo-padre e trasferitosi in casa dello zio Salvatore e della zia Agada finirà con l’innamorarsi della serva Cicchedda e avere un’altra figlia da lei, snobbando di fatto la cugina Costanza e contravvenendo al decoro sociale; o come l’infelice matrimonio di Cosimo Bancu, giovane avvocato scapestrato incapace di risollevare le sorti della sua famiglia, ormai composta solo dalla madre e dalle due sorelle Giovanna e Elena – quest’ultima alle prese, a sua volta, con un amore epistolare che coinvolge un ex spasimante della sorella, e il cui esito tragico sconvolgerà le sorti di tutti i suoi congiunti (senza contare che proprio nelle vicende sentimentali di Elena si trovano in più punti vere e proprie affinità autobiografiche circa gli amori "per corrispondenza" dell'autrice, compresi alcuni passaggi testuali estrapolati dal carteggio deleddiano con il letterato Angelo De Gubernatis).
Come ben spiega Gonaria Floris nella sua Prefazione, il romanzo si rivela interessante anche in sede prettamente filologica: non solo perché la sua storia tanto complessa e articolata dipende dal fatto che tre suoi episodi erano già stati pubblicati nella forma della novella o del racconto, ma anche e soprattutto perché la riedizione Treves, avvenuta a trentun anni dalla prima pubblicazione Speirani e adottata anche da Ilisso, modifica in più punti il testo originale:
«la revisione segue tre principali direttrici, tutte inclini al levare, assai poco al riscrivere e minimamente al correggere, se si eccettua il piano linguistico, che è di natura grammaticale e sintattica, per cui si emendano errori e si sciolgono equivoci o dissolvono oscurità».
Il fine della riedizione, effettuata a poca distanza dalla vittoria del Premio Nobel per la Letteratura, in piena dittatura fascista, è dunque a tutti gli effetti «moralizzatore», così che ogni eccesso vi appare, se non censurato, perlomeno affievolito, stemperato, specie quando si tratta di situazioni non del tutto edificanti o conformi alla norma sociale e culturale. Non che ne manchino, ad ogni modo, specie per quanto riguarda la sfera delle relazioni tra i personaggi: basti pensare all’attrazione che zio Salvatore, ostile al legame tra il nipote e la serva di casa, prova a sua volta nei confronti della giovanissima sottoposta; oppure la fede ebraica di Paolo De Cerere, uomo più anziano per cui Elena scopre di provare un sentimento forte e contraddittorio; o ancora, più in generale, l’evidenza di come quasi tutti i rapporti interpersonali e sentimentali finiscano con l’essere regolati da questioni di interesse economico e materiale o da convenienza sociale. L’aspetto illustrativo del romanzo, tuttavia, non risente in modo significativo di queste modifiche in sede di riedizione; e mentre è abbastanza semplice individuare i passaggi in cui la Deledda indugia (anche in modo pittoresco) nella descrizione di usi e costumi della sua regione d’origine – come la consultazione della maga da parte di Cicchedda e Costanza perché riveli dove si trova il tesoro, o il furto di bestiame da parte del terribile bandito Scopetta e la sua successiva uccisione con riscossione della taglia – la scrittrice si dimostra abile nel cogliere i problemi e le contraddizioni culturali e sociali di una Sardegna in divenire, in cui la mera fantasticheria di un tesoro viene percepita (allora come oggi) come concreta possibilità di riscatto personale.
Cecilia Mariani
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