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Quer pasticciaccio brutto de "Il giardino dell'Eden"

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Il giardino dell'Eden
di Ernest Hemingway
Traduzione di Masolino d'Amico
Mondadori, 2012 (ultima ristampa)

pp. 221
€ 9,50


La regola generale, si sa, è sempre quella: se devi spararla, sparala grossa. Diciamo, ecco, che a volte dare prima un'occhiata in giro non guasterebbe. Nel 1986, venticinque anni dopo la morte di Hemingway, Scribner's Sons dava alle stampe la prima edizione di The Garden of Eden, un romanzo che Papa aveva smontato, rimontato e ingigantito ininterrottamente dal 1946 al 1961 senza mai trovare un modo soddisfacente per farlo funzionare, finché alla fine risolse di lasciarlo incompiuto e spararsi con un fucile da caccia. Come sempre si fa in questi casi, l'editore fece precedere il testo da una rassicurante noterella, che dichiarava le solite cose:
... questo romanzo non aveva una forma definitiva alla morte dell'autore... All'infuori di un ridottissimo numero di interpolazioni minori a scopo di chiarezza e coerenza, nulla è stato aggiunto. Sotto ogni punto di vista significativo l'opera appartiene totalmente all'autore.

Peccato che la vera storia del romanzo fosse un pochino diversa: e il bello è che la conoscevano tutti. L'aveva già raccontata Carlos Baker nel 1969, nella sua biografia di Hemingway. Sotto il confortevole tappeto di quella nota introduttiva si nascondevano in realtà quindici anni di lavoro a volte quasi isterico su un romanzo che sembrava non voler trovare mai il proprio assetto, oltre mille pagine di tortuosità narrative, trame e sottotrame accumulate l'una sull'altra, due narrazioni gemelle sciorinate in 48 capitoli e 200.000 (duecentomila) parole, tre finali diversi. Niente male, per un autore abituato a dosare anche le virgole.

Eppure il romanzo che leggiamo noi conta appena 30 capitoletti per poco più di 200 pagine. Che fine ha fatto il resto?

Il fatto è che una massa narrativa così incontrollata e informe non si poteva proprio pubblicare, nemmeno piazzandoci sopra il nome di Hemingway. Così, alla Scribner's Sons, pensarono bene di mettere l'intero scartafaccio in mano a Tom Jenks, giovane editor a cui fu affidato il compito di trarre, da quel mammuth di carta e incertezze, un testo proponibile al pubblico come "romanzo". E Jenks ci lavorò su. Sfrondando una delle due storie dell'intreccio, riducendo il tutto di più di due terzi, correggendo, rimaneggiando e infine scegliendo, per concludere la storia, uno tra i tre finali preparati da Hemingway. Eccolo qui, quel "ridottissimo numero di interpolazioni minori" di cui Scribner's Sons ci avverte sulla soglia del giardino dell'Eden.

Nella forma pubblicata, la storia è esile come una ragnatela. David Bourne, scrittore di successo con il carisma di un cavalluccio marino in secca, si trova in luna di miele sulla costa francese con la moglie Catherine e passa il tempo pescando, mangiando e facendo quelle cose che si fanno in viaggio di nozze. Peccato che Catherine, oltre che bella e ricca, sia anche un po' particolare (i maligni direbbero "schizoide"): per esempio, le piace lo scambio di ruoli a letto. Perciò convince David a fingersi una ragazza, tenendo per sé il ruolo del maschio alfa di turno. Purtroppo l'equilibrio mentale di Catherine comincia presto a traballare e i Bourne decidono di cambiare aria e trasferirsi in Spagna. Lì incontrano la giovane e ricca ereditiera Marita, di cui entrambi si innamorano: a questo punto la situazione sfugge un po' di mano a tutti, incamminandosi lentamente (molto lentamente) verso un finale così scialbo che si sfilaccia e svanisce come un sogno già pochi minuti dopo aver chiuso il libro. Tra uno sbadiglio e l'altro, Hemingway infila anche una storia nella storia: quella che Bourne scrive nel tempo libero, il racconto trito e rimasticato di una caccia all'elefante impregnata di sensi di colpa insieme al padre beone.

A fare da filo conduttore a parte dell'intreccio, l'ambiguità sessuale che regola il rapporto tra i tre e che ridefinisce (o vorrebbe ridefinire) il classico ruolo hemingwayano del maschio dominante, scalzandolo dalla sua classica posizione di controllo e rinchiudendolo in una prigione di inadeguatezza e sudditanza psicologica. È questo, potenzialmente, l'elemento di novità più intrigante del romanzo.

O meglio, lo sarebbe se servisse a qualcosa: peccato che non serva a nulla. Così come lo leggiamo in questa versione rabberciata, è solo uno spunto sfilacciato che certo stupisce, ma che in pratica resta senza effetti reali sullo sviluppo del racconto. Davvero un'occasione mancata, considerando la funzione di "libro-confessione" che, secondo alcuni, Hemingway avrebbe voluto attribuire al suo Giardino dell'Eden: una sorta di svelamento finale delle debolezze e fragilità che l'uomo Hemingway aveva passato la vita a nascondere al riparo di una maschera posticcia di robusto machismo. E forse non è senza significato il fatto che proprio un libro così Hemingway non sia mai riuscito a concluderlo.

Nel romanzo come lo leggiamo noi ha invece di gran lunga più importanza la storia della doppia relazione sessuale e sentimentale di David Bourne con le sue due donne. È qui che ritroviamo, in parte, l'Hemingway che conosciamo: Marita, "l'altra donna", è la classica sciacquetta hemingwayana vuota e sottomessa che parla poco e in genere solo per dire "Sì, ti amo, amore", la ragazza giovane e bella che esiste solo per ricevere senso e significato dall'uomo che affianca. In poche parole, un ectoplasma vuoto e insopportabile (come la Renata di Di là dal fiume e tra gli alberi, per dirne un'altra). E pure David Bourne non è da meno: un burattino ignobile che un po' si adatta e un po' si adegua, vorrebbe mandare al diavolo tutti e tutto, ma riesce soltanto a riempirsi il bicchiere, irosamente consapevole della situazione in cui ha acconsentito a ficcarsi eppure troppo debole per poter fare qualsiasi cosa per uscirne. Entrambi, Marita e David, soffrono di una debolezza intrinseca che li rende incolori, inconsistenti, incapaci di portare il minimo contributo a una storia che dovrebbe vederli protagonisti.

Per fortuna c'è Catherine. La figura della prima moglie di Bourne domina indiscussa il romanzo con la sua personalità dirompente, modellata su una follia inarrestabile, progressiva, via via più devastante a mano a mano che si avvicina la sua deflagrazione finale. Un personaggio di una potenza narrativa coinvolgente al limite del turbamento, anzi: senz'altro il più complesso personaggio femminile di tutta la narrativa hemingwayana, che con il suo altalenante equilibrio mentale fa da motore agli eventi e in pratica tiene in piedi l'intera struttura. Gli episodi che ruotano intorno ad azioni o decisioni di Catherine sono non solo i più intensi e i meglio gestiti narrativamente, ma anche gli unici a voler mantenere una parvenza di consapevolezza quanto alla direzione che la storia, qualunque essa fosse nelle intenzioni originarie, vorrebbe prendere.

Peccato che la figura di Catherine non basti da sola a tenere in piedi una storia che, pur mutilata con l'accetta dai suoi editori, resta sempre troppo lunga, troppo annacquata, sproporzionata nelle sue parti costitutive, noiosa e soprattutto inconcludente. Niente più che "bad Hemingway", come scrisse subito E.L. Doctorow recensendo il romanzo sul New York Times.

Alla fine della lettura, una sola frase resta impressa nella memoria; e forse Hemingway, in quel momento, accumulando infinite pagine e parole per raccontare una storia di cui non riusciva mai a intuire la fine, la scrisse più per se stesso che per noi:
Ogni cosa puoi farla una volta sola. E te ne sono concesse soltanto un certo numero in tutta la vita.


Luca Pantarotto
@HoldenCompany