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Dove dovrei andare io ora, un Trotta?

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La Cripta dei Cappuccini
(tit. orig. Die Kapuzinergruft)
di Joseph Roth

I ed. De Gemeenschap, 1938
ed. it. Adelphi, 1974

Traduzione di Laura Terreni

pp. 195
€ 10 (cartaceo)
€ 3,99 (ebook)

"Wir heißen Trotta. Unser Geschlecht stammt aus Sipolje in Slowenien"
"Ci chiamiamo Trotta. La nostra stirpe proviene da Sipolje in Slovenia"
(trad. mia)

Con questa frase comincia il suo racconto in prima persona il tenente Franz Ferdinand Trotta, giovane aristocratico nella Vienna di inizio '900, la città delle oziose discussioni da salotto dell'alta società, percorsa da tensioni e tumulti sotterranei, che quasi mai vengono allo scoperto o dimostrano possedere una certa concretezza, lasciando di fatto scorrere placidamente la vita nella grande capitale imperiale. Pagina dopo pagina Trotta ci presenta il suo mondo, le sue compagnie, la sua famiglia, la sua amata. Tra una riga e l'altra ci confessa anche che suo padre era un ribelle: il suo sogno era di creare un regno sloveno sotto il dominio degli Asburgo, un impero insomma in cui anche gli sloveni, accanto ad austriaci ed ungheresi, fossero chiamati a dire la loro. Un sogno ereditato a propria volta dal figlio, molto romanticamente.

Leggendo queste prime pagine sembra di trovarsi quindi di fronte ad una di quelle premesse che lasciano facilmente presagire lo svolgimento degli eventi: Trotta - così si potrebbe pensare - cercherà di raggiungere il suo scopo; la trama si evolverà in questa direzione; rivoluzione slovena in arrivo. Non è tutto così scontato, però. Questo perché la Cripta dei Cappuccini non appartiene a questo genere di romanzo. L'ultimo grande lavoro di Joseph Roth rappresenta invece il canto del cigno dell'Impero austro-ungarico, non l'epopea di un singolo personaggio. A ricordarci che le vicende prenderanno una piega inaspettata ci pensano i numerosi commenti a posteriori dell'io narrante, che però più di anticipare concretamente ciò che accadrà in seguito si lascia andare a chiose amare e malinconiche, in cui ricorrono morte e guerra come un'ombra sulle pagine successive. Un esempio su tutti:
"Der Tod kreuzte schon seine knochigen Hände über den Kelchen, aus denen wir tranken"
"La morte incrociava già le sue mani ossute sui calici da cui bevevamo"
(trad. mia)
Si ha l'impressione che Trotta avrebbe desiderato fortemente raccontare una storia in cui lui fosse l'effettivo ed indiscusso protagonista, capace di intraprendere la propria strada e piegare la sorte. In realtà il giovane tenente è essenzialmente uno sconfitto e narra gli avvenimenti di cui è stato in balìa, completamente disorientato dalla dissoluzione dell'Impero al termine della Grande Guerra. Il filo rosso che più o meno evidentemente attraversa il romanzo è il grande tema della patria: dapprima il protagonista ne è alla ricerca - memore delle sue origini slovene - ed insegue ogni sua traccia (nella scelta del reparto militare, nelle frequentazioni, nei viaggi di piacere e perfino nel vestiario!) per poi accorgersi, tornato a casa alla fine del conflitto, di averla persa per sempre.
Se da un lato, come già accennato, nella prima sezione la narrazione scorre tranquilla, ricca di descrizioni, spunti e riflessioni, dall'altro non appena nel romanzo la guerra irrompe violentemente il racconto si riduce quasi ad un arido e convulso susseguirsi di eventi, in cui tra le mani di un impotente Trotta si disgrega un intero mondo, quello che ci era stato presentato in precedenza.
La dimensione temporale viene trattata in maniera estremamente personale dall'autore: indugia molto - moltissimo - sulla descrizione della vita prima del conflitto, dedica poche sparute pagine al periodo bellico e poi diluisce nell'altra metà circa vent'anni di storia, ovvero vent'anni di decomposizione di tutto ciò che era rimasto, fino all'annessione dell'Austria da parte della Germania nel 1938. Questo, ed altri particolari (assenza di corrispondenze e simmetrie, lievi contraddizioni ed anticipazioni inconsistenti) tradiscono la mancanza di un progetto organico: Roth non può essere considerato un architetto, alla stregua di Eco ad esempio o - per rimanere in ambito austro-ungarico - di Musil. Il suo disegno narrativo sembra piuttosto prevedere una serie di personaggi di cui raccontare ante e dopoguerra, come se si trattasse di una sua particolarissima mnemotecnica alla maniera degli antichi aedi e rapsodi. Non è nella costruzione di complesse cattedrali da ricercare il valore di Roth come scrittore, ma nel suo stile asciutto e conciso, a tratti lapidario, con un efficacissimo senso del ritmo: più che un architetto, Roth è un sarto che taglia e cuce magistralmente i suoi periodi, confezionando un discorso particolarmente gradevole e musicale, quasi più adatto alla recitazione che alla lettura.
Da notare, poi, come la politica interessi davvero poco allo scrittore austriaco, se non a fini squisitamente narrativi e di contestualizzazione: sono assenti riflessioni politiche di un certo spessore in merito alle vicende di quegli anni, ad esempio non viene citato l'omicidio del cancelliere Dollfuß e, nonostante il chiaro riferimento all'occupazione nazista, non viene fatto il nome di Hitler. Roth, come la sua creatura, è un nostalgico dell'Impero austro-ungarico ed è quella l'unica dimensione politica che gli si confà, il resto è mera contingenza.
Sullo sfondo rimane infine un Trotta inerme e disorientato, sottoposto ad un percorso di continue privazioni, tale da sottrargli ogni velleità ed iniziativa. Un senso di estraneità - addirittura nei confronti della vita stessa - si impadronisce di lui, relegandolo in un immobilismo che diventa pian piano marcescenza. Nelle ultime pagine si consuma l'annessione alla Germania, annunciata da un militare con maschera antigas, ed il nostro eroe vaga fino alla Cripta dei Cappuccini, ultima dimora degli Asburgo. Qui, in perfetta antitesi alle parole iniziali e lasciando giustamente aperto il finale di un romanzo di una patria che non c'è più, si chiede:
"Wohin soll ich, ich jetzt, ein Trotta?"
"Dove dovrei andare io, io ora, un Trotta?"
(trad. mia)


Adriano Morea