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#Pillole d'Autore: Osare dire di Cesare Viviani

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Spesso si sente dire che la poesia non vende, che nessuno legge più poesia. In realtà, non ha mai venduto abbastanza.
Quello poetico è sempre stato un genere elitario, con la differenza che oggi il pubblico si sente meno rappresentato dai poeti, che  cadono in componimenti troppo personali e poco condivisibili; in più,  si tende ad ancorare la poesia ancora ad un linguaggio lirico, inopportuno a rappresentare una società che di aulico non ha un bel niente. Per questo motivo, il lettore moderno  si sforza poco di capire quella che è la poesia contemporanea, che giudica incomprensibile e troppo azzardata; tuttavia, adesso non potrebbe essere altra da quella che è: sperimentale  e con precise intenzioni significative. Eppure, questo tipo di poesia ha bisogno della critica per essere compresa. Manca insomma di un accesso non mediato, che rende la lettura un piacere e non uno studio.

Se la poesia vuole avere ancora un senso, bisogna che trovi la sua legittimazione nella realtà, che renda visibile il fenomeno. Forse è proprio questo che  sta domandando: la chiarezza.
Quella dell'ultimo Viviani è senza dubbio una poetica rinnovata. Il poeta, dopo anni di ricerche e sperimentazione, sfocia in un gusto pop, comprensibile anche al lettore meno esperto.  Non è più tempo di eccessi e virtuosismi, la poesia si svuota di quel lirismo tipico della tradizione italiana, e diventa pulita. Un Osare dire che non vuole gli si chieda la parola, una contraddizione interna, che cerca delle risposte, da uomo e non da vate. C’è insomma autentica volontà di riproporre una riflessione, una poesia-pensiero tipica della poetica di Cesare Viviani, senza l’arroganza di dare risposte definitive.
I versi sono liberi,  a volte una sequenza di frammenti brevi, le iterazioni sono frequenti,  cercano –  se pure con pudore – di far fronte al problema del senso. C’è la natura, la guerra, la mancanza, il perdersi; la morte, che è una sorta di liberazione in un mondo di automi “ferrati dallo stesso fabbro”; il bosco, una presenza claustrofobica, chiaramente allusiva, che enfatizza la ricerca di un qualcosa che non è esplicitato. I componimenti si susseguono senza titoli,  pratica ormai molto diffusa nella poesia contemporanea, incapace a denominare. Ne vien fuori un discorso unico, senza interruzioni, che privilegia la potenza del ‘dire’ ad ogni costo e vuole smuovere i personaggi, inerti, in una tribuna ‘col posto numerato’.

Testo di riferimento : Cesare Viviani, Osare dire, Einaudi, Torino, 2016.
Le poesie della raccolta Osare dire sono state scritte nell'arco di tempo che va dal luglio 2012 a settembre 2014.
Introduzione e selezione dei testi a cura di Isabella Corrado

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Non mi parlare di ugonotti
o di Horkheimer,
di Dancalia o di estrusione,
non so, non ti seguo, non capisco,
sono un analfabeta,
ho imparato l’abbecedario e poco più,
o tutto il resto l’ho dimenticato,
il professore di matematica Cateni
per la mia memoria spenta diceva:
«Viviani sarai un analfabeta di ritorno».
Aveva capito tutto.
Tutti i mortali capiscono tutto,
mentre noi crediamo solo agli immortali.



Vorrei non esistesse l’assenza,
strazia, amputa esige,
sostituzioni, immaginazioni, vorrei
stare sempre sveglio, diceva
l’invincibile, e fu così, riuscì.
Resistette a lungo, e per sempre.



Più dell’identità personale conta
lo sferragliare del tram,
le voci dei passanti,
i rumori dei lavori
in corso.


Il bosco sempre più fitto, la guida
si è impantanata,
fin qui ha spiegato tutto bene,
ora non trova più la definizione adeguata,
l’intrigo sempre più fosco delle piante copre
la traccia di sentiero,
la guida ha preso ad affondare nel terreno,
vuoi vedere che va a finire che sprofonda.


Uno che lo liberano,
non si sa perché, per quale intervento,
direi dall’alto,
anche un altro dopo giorni,
li guardiamo andare, uscire,
noi restiamo qui.


E cosa possiamo fare
di fronte al tuo uscire di strada e perderti,
se assistiamo dalla tribuna
col posto numerato?


Mi avete già spaventato abbastanza
con tutte le vostre invenzioni,
con tutte le vostre perfezioni.
Ora c’è anche chi dice
che un disastro planetario distruggerebbe
le specie viventi e potrebbe aprire
all’evoluzione di una specie superiore.
Ma via, allora meglio il ritardato
che crede l’orizzonte appoggiato
alla recinzione dei campi.


Tu vedi come è vicina la gloria
alla stupideria,
la gloria declamata, invocata
proprio mentre si esce incontro alla prima
raffica di mitra.

Anche i duelli, le lotte
con le bestie feroci, i sacrifici umani
devono rispettare le forme,
svolgersi nel campo del bello,
gli scontri, le morti
offrire una grazia a chi paga
per vedere.
E non parlo di Roma,
parlo di automa.


Con voci e volti diversi
era sempre la stessa persona che incontravo
da anni, ogni giorno. Sono tutti
uguali, ferrati dallo stesso fabbro,
tatuati dallo stesso stile.
E poi mi chiedono di partecipare
alle loro differenti storie e sventure,
piangere ai loro lutti…



No, non sapremo mai
se quel che abbiamo avuto
ci è stato dato,
se in tutta la vita
abbiamo conquistato
un filo d’erba, un frutto, un sorriso.


E se fossimo nati per credere
non per procreare,
certamente non per lavorare,
e nemmeno per amare e meditare,
ma solo per credere?


Com’è, come sarà
vivere senza ricevere aiuto,
senza favori, protezioni,
senza materne associazioni,
anche quando la febbre sale,
anche quando il fiume straripa
e travolge il riparo, orto e baracca.
Sarà come vive il resto della natura,
vicino ai predatori e senza paura.




Isabella Corrado