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Ai suoi e ai nostri piedi: la NIKE raccontata dal suo "vincitore"

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L’arte della vittoria.
Autobiografia del fondatore della NIKE
di Phil Knight
Traduzione di Giuliana Lupi, Laura Tasso e Giovanni Zucca
Mondadori, 2016

pp. 398
euro 20,00


«“Che diavolo è uno swoosh?”
La risposta mi uscì da sola: è il rumore di qualcuno che ti supera».


Parrà quasi banale a dirsi, ma l’autobiografia di Phil Knight è un libro che si legge di corsa. Alla lettera. Non solo e non tanto perché l’autore di L’arte della vittoria è il fondatore e il patrono di uno dei più grandi marchi per le calzature e l’abbigliamento sportivo – la NIKE – che a partire dalla seconda metà degli anni Settanta ha legato il suo nome principalmente (ma non solo) alle discipline ginniche basate sullo sprint e sulla resistenza. Il motivo per cui le quasi quattrocento pagine scorrono emozionanti e veloci come una gara dei 100 metri olimpici è che sembrano essere state scritte allo stesso modo in cui è stato vissuto il loro contenuto: in un crescendo di accelerazione. L’effetto, stando così le cose, non può che essere trascinante.
Che cosa può spingere uno degli uomini più ricchi d’America – e del mondo, evidentemente – a scrivere le proprie memorie e, con esse, quelle della propria azienda? Forse il desiderio egocentrico di celebrare se stesso e magari fornire, così en passant, dei consigli ad hoc per tutti i giovani imprenditori o aspiranti tali? In quanti lo fanno, d’altra parte? Non ci sarebbe nulla di strano, né, va da sé, di nuovo. Ma non è tanto questo l’intento di quello che, pagina dopo pagina, si impara a conoscere come un vecchio ragazzo dell’Oregon appassionato di corsa e destinato a incontrare (e superare) innumerevoli ostacoli, concreti e metaforici. A dispetto del titolo quasi urlato – non esulta forse l’atleta, al traguardo, consapevole della sua imminente medaglia? – il libro in questione è soprattutto il racconto delle difficoltà, delle battute d’arresto, delle sconfitte e delle angosce di un’impresa economica e, parimenti, ideologica, che solo un uomo con una dedizione totale e totalizzante per il proprio lavoro avrebbe potuto affrontare. Sempre. Ogni volta. Per l’appunto: come l’atleta – meglio ancora: il corridore – che arranca, viene superato, non sente più le gambe, sbuffa, non ha più fiato, continua a guardare dritto di fronte a sé e, infine, vince. Oppure no. Perde. Cade. Striscia. Si infortuna. Si riabilita. Ricomincia ancora una volta da capo. Dall’allenamento. Dallo sparo del “VIA!” del giudice di gara sulla linea di partenza.

L’arte della vittoria è dunque, principalmente, un libro totalmente antiretorico – non un plauso compiaciuto nei confronti della propria invidiabile epopea – e nel contempo profondamente retorico – la retorica del successo, sebbene ottenuto a costo di insuccessi immani che non ci aspetteremmo tali da parte di un personaggio che immaginiamo vincente fin dalla culla, è una delle trame più emblematiche del self made man americano (homo faber fortunae suae, per tutti i discendenti della latinità). E Phil Knight, alla fine, è tutto fuorché un perdente. Anche se, chiuse le sue memorie, a restare più impressi sono proprio i momenti di down, il rosso finanziario, lo “spionaggio” aziendale, le controversie giudiziarie. In un libro scandito in capitoli recanti come titolo l’anno progressivo di attività, e in cui la descrizione delle dinamiche economiche è talmente precisa, puntuale e maniacale da rasentare l’impressione del case study da manuale, non ci si aspetterebbero certo i tanti sentimenti che invece vi risultano messi in gioco. E se è vero che una celebre telenovela aveva come sottotitolo l’adagio «anche i ricchi piangono», le lacrime di Knight per un giovane e talentuosissimo corridore che muore in un incidente d’auto a soli ventisei anni non sono meno strazianti o contagiose delle risate dell’autore nel rievocare la cena in cui un perfido rivale in affari di origine giapponese finisce con l’ubriacarsi e cantare a squarciagola Oh sole mio! nel salotto dei suoi perplessi concorrenti americani.

A proposito: il Giappone. Nessuno immaginerebbe che il fondatore di uno dei più grandi imperi statunitensi abbia iniziato la sua carriera in Estremo Oriente, a pochi anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, lavorando per anni – prima di un complicatissimo divorzio – come rappresentante, negli USA, delle calzature Tiger, prodotte dalla Onitzuka. E nemmeno penserebbe che l’ispirazione per dedicare la vita ai piedi delle persone – prima degli atleti, poi di ogni bipede umano – possa essergli venuta durante un giro del mondo post-lauream passato a visitare i luoghi più sacri del mondo, camminando senza posa e, dunque, cominciando a maturare una certa ossessione per le scarpe e le fisionomie plantari delle culture e dei popoli con cui gli capitò di entrare in contatto e confrontarsi. L’ "arte della vittoria", insomma, sembra risiedere anche nei paradossi e nella… serendipity.

La NIKE – piacciano o non piacciano i prodotti in sé, e oltre ogni possibile inchiesta mirata a condannare le modalità di produzione e compravendita di un’azienda che proprio da quelle critiche è ripartita per divenire un modello nel mondo – è da decenni sinonimo di sport. È il nominativo diabolicamente perfetto di un’ideologia perforante proprio a partire dal nome, da quella parola mutuata dal greco antico capace già di per sé stessa di evocare successi e orizzonti di gloria. Al punto che si resta basiti e balordi nell’apprendere della fatica fatta per battezzare un marchio che ora, per l’intero globo e insieme a pochi altri (in questa sede innominati), equivale a sudore, fatica, dedizione, impegno, disciplina, mestiere o semplice tempo libero:

«per la mia testa passavano un’infinità di pensieri, consci e inconsci. In primo luogo Johnson, che ci aveva fatto notare come tutti i marchi iconici – Clorox, Kleenex, Xerox – avessero nomi brevi. Due sillabe o meno. E sempre un suono forte nel nome, una lettera come la “k” o la “x”, che rimane impressa. Tutto aveva senso. E tutto descriveva il nome Nike. Poi mi piaceva che Nike fosse la dea della vittoria. Che cosa c’è di più importante della vittoria, pensai?».

Ebbene: che cosa c’è, dunque, di più importante della vittoria? Forse solo la vittoria ottenuta dopo tante sconfitte. Perché sono proprio quelle, e il modo in cui le si affronta, che, a lungo andare, conferiscono l’andatura più distinta con la quale ci si possa mai muovere – camminare, correre – nel mondo. Ci sarà da fare caso anche a questo, tra poche settimane, nel corso dei prossimi, imminenti, Giochi Olimpici in Brasile.

Cecilia Mariani