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"La via del lupo" di Marco Albino Ferrari

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La via del lupo
Nella natura selvaggia dall'Appennino alle Alpi
di Marco Albino Ferrari
Editori Laterza, 2016

Nella "Economica Laterza": prima edizione maggio 2014

pp.197

9.50 €



Il lupo è tornato, ha vinto la lotta contro il pericolo dell'estinzione che lo dava per spacciato soltanto fino a quarantacinque anni fa ed è tornato a popolare i Monti Sibillini, le foreste casentinesi, l'Appennino parmense, le Alpi Marittime, spingendosi sino alla Valle D'Aosta, al Parco del Gran Paradiso: la via del lupo, appunto. E sulle tracce del canis lupus italicus si muove Marco Albino Ferrari, dando vita a un libro-itinerario che con un approccio geografico e sincronico da un lato – quando ripercorrendo gli spostamenti dei branchi e dei singoli individui in dispersione ci porta con sé in un viaggio affascinante tra valli e boscosi declivi – e diacronico dall'altro – nel ricordare invece le importanti tappe (gli anni ruggenti dell'ambientalismo italiano, le proteste, l'attivismo del nascente WWF, i decreti legislativi) che hanno portato alla salvaguardia di questo maestoso carnivoro – ci traghetta nell'habitat naturale dell'animale che è per eccellenza simbolo della natura selvaggia.

Un primo e macroscopico merito dell'opera di Ferrari risiede nel coniugare con sapienza il fine divulgativo a una narrazione il cui piglio è quello di un'emozionante e avventurosa cronaca di viaggio tesa a trasportare il lettore in una frondosa, verdissima e poco nota Italia, dove la presenza umana è sporadica, in cui gli unici monumenti sono quelli eretti da Madre Natura sotto forma di giganteschi alberi e creste montuose dall'aspetto inusitato e imponente. Quando l'autore ci racconta del primo imprescindibile lavoro di ricerca e censimento compiuto sull'allora esigua popolazione di lupi nella penisola, quello condotto dai giovani Erik Zimen, specialista di etologia del lupo e allievo di Lorenz, David Mech, uno dei più ingegnosi radio-tracker del globo, e Luigi Boitani, biologo esperto di Appennino, è facile calarsi nei panni dei tre giovani studiosi, pionieri della lupologia e portavoce delle istanze del mammifero in via d'estinzione. Li osserviamo condurre una vita spartana, senza corrente elettrica, gas e telefono nella piccola capanna di tronchi tra i monti della Maiella, al limitare del bosco, dove, a lume di candela, architettano metodi per la cattura degli animali, mettono a confronto i dettagli sugli avvistamenti, riempiono registri su registri con annotazioni, dati ambientali, interpretazioni. Sono gli eroi di un'epoca (i primi anni Settanta) in cui il mondo accademico della zoologia italiana non s'interessava al lupo e ne ignorava l'etologia, in cui il canide selvatico non suscitava le simpatie dell'opinione pubblica e veniva perlopiù ignorato, se non proprio disprezzato: gli unici ad avere una certa dimestichezza con l'animale erano i cacciatori e, loro malgrado, i pastori.
Lungo le pagine iniziali de “La via del lupo”, risulta dunque naturale fare il tifo per i tre giovani scienziati ed esultiamo assieme a loro quando il primo esemplare cade in una delle elaborate trappole di Mech e viene visitato, misurato, analizzato e dotato di radiocollare per monitorarne gli spostamenti. Avvinti dalla narrazione, seguiamo con interesse la coraggiosa equipe durante le faticose ronde sulle orme del predatore, mentre si spostano in lungo e in largo per la foresta per mappare gli spostamenti degli esemplari, comprendere i rapporti sociali tra i componenti del branco, indovinarne le intenzioni:
Il compito più gravoso era che i lupi dovevano essere seguiti costantemente, giorno e notte. Dunque, per ottimizzare gli sforzi, ci si muoveva da soli sul terreno, sempre muniti di antenna, radioricevente, binocolo, taccuino per registrare gli spostamenti. Buona parte del lavoro consisteva nell'effettuare le triangolazioni necessarie a stabilire il punto dove si trovava l'animale nella foresta, e poi, a seconda della stagione e della presenza della neve, si seguivano le tracce. Le rotazioni delle attività erano stabilite: Zimen e Mech lavoravano di giorno, Boitani copriva in genere il turno di notte. E vagava da solo nel buio, penetrando l'aura primordiale delle foreste, sotto la luna, le stelle, oppure avvolto nella nebbia, inseguendo in silenzio la sua invisibile preda. Di giorno la foresta era bella, di notte diventava incantata. Il silenzio, nella folla innumerevole degli alberi, era totale. Solo il bip-bip della radio lo accompagnava di tanto in tanto. O a volte sopraggiungeva un morbido ululato in lontananza: erano singoli lupi che si chiamavano a distanza o era il branco che si “caricava” prima di partire per la caccia notturna.

L'incalzante scrittura di Ferrari non ci consente di restare impassibili nemmeno di fronte al triste epilogo della storia di 1/2, il primo lupo catturato e monitorato dal gruppo. I nostri, dopo aver studiato a lungo le abitudini dell'animale, a un certo punto ne rilevano la posizione immobile per svariati giorni: c'è qualcosa che non va e decidono di andare a verificare di persona. Ne rinverranno il corpo senza vita, ennesima vittima dell'uomo, e noi non riusciremo a trattenere un groppo in gola.

Ma non finiscono qui le emozioni che questo volumetto ci riserva. Terremo il fiato sospeso anche quando, a essere esposta, sarà la singolare vicenda di Patrizia Pizzorni, volontaria di un'associazione animalista di Parma. Riceverà una delle tante telefonate in cui le viene richiesto di soccorrere, per conto del canile municipale, un randagio investito sulla tangenziale, un grosso cane grigio ancora vivo ma in brutte condizioni. Il suo sgomento sarà grande quando si renderà conto di trovarsi per le mani un lupo, da lei battezzato Ezechiele. E sarà proprio Ezechiele (o Ligabue o M15, nomi con cui a quei tempi divenne più noto) a dimostrare il fatto che negli Appennini esiste un corridoio ecologico percorso dai lupi sin sulle Alpi:
(…) Un'arteria naturale ininterrotta sulla cresta delle montagne che permette ad animali astuti come i lupi di unire in traversata le due catene montuose. Fu Ezechiele, dunque, a disegnare sulla carta geografica l'esatta via del lupo: dall'Appennino parmense alle Alpi Marittime”.


Ferrari, durante i suoi spostamenti sulle tracce del lupo lungo metà dello stivale tra parchi naturali e aree boschive, non avvista mai il grosso canide. Mai, nemmeno per un attimo, nemmeno in lontananza. Ne coglie le orme sulla neve, le “fatte” (gli escrementi, dal cui studio si possono ricavare preziose informazioni sia sul DNA dell'animale che sulla sua alimentazione) e, una volta, una preda sbranata. L'unico esemplare che ha il privilegio di poter osservare è Merlino, un lupo trovato in cattive condizioni quando era cucciolo e che si trova nel centro faunistico del Parco dei Monti Sibillini. Il suo rilascio tra i selvatici è difficile, probabilmente impossibile: il lupacchiotto non è cresciuto a contatto col branco e non ha quindi potuto apprendere il linguaggio indispensabile a comunicare coi suoi simili, a inserirsi nella rigida gerarchia del branco. Quello tra l'autore e il giovane ma ormai adulto esemplare è un incontro emozionante: l'animale non sa di essere osservato e si mostra in tutta la propria maestosità.
C'è di più: guardare un lupo significa fissare lo sguardo su un singolo rappresentante della sua specie e, nel frattempo, scorgere in esso l'archetipo, lo spauracchio, l'animale ingiustamente considerato per secoli come il nemico dell'uomo per antonomasia. E interrogarsi su quali siano le ragioni di questo antico antagonismo:


“Eccolo lì, il lupo, finalmente. Lo osservavo cercando di fissare il più possibile la sua immagine nella memoria. Quando ancora avrò ancora occasione di vedere un lupo?
In quel momento, pensai, per una rarissima deroga alla consuetudine era il lupo ad essere osservato dall'uomo, e non viceversa. Era osservato dall'uomo resosi invisibile perché celato dietro un riparo. Uno sguardo fisso fra uomo e lupo correva anche in quegli istanti, ma in un senso opposto a quello abituale.
E mi venne da riflettere sul terribile divario di potere che dà guardare senza essere visti, sul senso di tremenda impotenza e oppressione che si riceve dal sentire gli occhi di qualcuno che ti fissano, senza poter ricambiare lo sguardo. Sarà proprio su questo punto, mi chiesi, che si sono addensate le paure dell'uomo nei confronti del lupo? Il lupo, in fondo, non ha mai rappresentato una vera minaccia materiale per l'uomo. Non attacca l'uomo, come per esempio fanno la tigre, l'elefante, il bufalo. Il lupo può attaccare gli animali domestici, ma lo fanno anche altri animali, come la volpe, e comunque ci si può sempre difendere. Eppure non sono la tigre, l'elefante, il bufalo o la volpe ad essere percepiti come gli antagonisti per antonomasia dell'uomo. No, qualche cosa d'altro deve aver concorso a determinare un così ampio campionario di leggende infamanti, di miti e proverbi ingiusti che hanno dipinto il lupo come il male assoluto.
Quel giorno, osservando Merlino, mi sembrò di intuire che molto, del rapporto uomo-lupo, stava proprio nello sguardo. Nello sguardo del lupo.
Perché se è vero che non c'è niente di più pauroso di essere osservati senza poter vedere, allora si spiega la paura che incute il lupo nei lunghissimi appostamenti che precedono la caccia. Il lupo è capace di aspettare giornate intere nascosto in un cespuglio. Il suo sguardo, lo abbiamo visto, filtra tra i rami, esce dal buio e vigila, controlla, prende la mira. Così aveva fatto ½ per mesi sul paese di Villetta Barrea prima di essere ammazzato.
Quegli occhi infondono timore. Sono loro, gli occhi del lupo, non i denti a incutere paura. E al Centro recupero animali selvatici di Massimo Dell'Orso, le parti, per pochi minuti, si erano invertite.”



Il cammino dell'autore è contrassegnato da molti incontri, uno o più per tappa: scienziati e operatori che hanno dedicato la loro vita e il loro lavoro a questi favolosi animali e che, nei loro racconti ricchi di colpi di scena, ci parlano degli avvistamenti, delle esplorazioni dell'habitat impervio e incantato in cui il canide si muove agilmente, del monitoraggio dei branchi attraverso le videotrappole, lo snow-tracking, la tecnica del richiamo indotto. Storie di lupi, di boschi e di montagna. Ma anche storie urbane, che parallelamente si snodano tra università, laboratori di analisi e centri di ricerca, che ci narrano della lotta, lunga quasi cinquant'anni, per difendere questi animali dai loro più antichi competitor, gli allevatori, per metterli al riparo dal bracconaggio e per finanziarne lo studio.
Ci confrontiamo coi racconti del già citato Luigi Boitani, oggi titolare della cattedra di Zoologia dei Vertebrati all'Università La Sapienza di Roma, entriamo nel suo studio ingombro di radio collari e apparecchi per il wolf-howling, una tecnica che consiste nell'usare il richiamo dei lupi per effettuare, sul campo, un censimento della popolazione. E, a proposito di wolf-howling, apprendiamo da Giorgio Boscagli, altro pioniere nel campo della ricerca sul canis lupus italicus e ora direttore del Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, che dietro l'ululato corale di un branco si cela una strategia consapevole basata sulle modulazioni di frequenza: quasi mai i componenti di un branco si sovrappongono sulla stessa lunghezza d'onda. In questo modo, registrando con microfoni ad altissima fedeltà quei misteriosi richiami che possono esprimere senso di appartenenza al branco, funzionare da richiamo o affermare l'occupazione di un certo territorio, e analizzandoli attraverso un frequenzimetro, è possibile stimare il numero di componenti di un gruppo.
La sfilata di personaggi e incontri che si avvicendano nel lungo racconto-inchiesta non finisce qui: c'è Francesca Marucco, giovane biologa torinese coordinatrice del “Progetto lupo” sin dal suo avvio, c'è Osvaldo Naudin, politico valdostano che ebbe un ruolo decisivo nella querelle che accompagnò l'ampliamento dei confini del Parco Nazionale del Gran Paradiso alla fine degli anni Settanta, c'è la figura affascinante dell'ex-capo dei guardaparco del Gran Paradiso Luigi Jocollè, professionista della telenarcosi per la cattura di ungulati destinati al ripopolamento di altre zone, che si definisce “un pastore degli stambecchi” e che, ormai in pensione, ricorda con nostalgia l'esperienza elettrizzante, unica, del contatto col selvatico.
Grazie a ognuno di essi si ricompone il puzzle delle vicende che hanno determinato i confini geografici e giuridici di quei preziosissimi areali protetti, delle scoperte derivate dal rilevamento sempre più dettagliato e puntuale degli spostamenti del lupo sul territorio e dallo studio del suo comportamento in natura.

C'è un interrogativo che sembra costantemente riproporsi, pagina dopo pagina, ne “La via del lupo” ovvero: il lupo è realmente fuori pericolo? La risposta è no. Tradizionalmente, i nemici più agguerriti del lupo sono gli allevatori che temono le carneficine del predatore ai danni del gregge. Anche gli abitanti della montagna hanno fra i propri interessi la salvaguardia del territorio ma la loro prospettiva è diversa da quella ambientalista: nel primo caso la natura è considerata fonte di sostentamento, proprietà dell'uomo in quanto da essa dipende la sopravvivenza di generazioni di esseri umani. L'ambientalista invece cerca di salvaguardare l'integrità dell'ecosistema e dei cicli vitali degli organismi che ne fanno parte, limitando il più possibile l'intervento umano. Eppure è proprio grazie all'intervento umano che è stato possibile riconquistare la dimensione incontaminata perduta, che si è potuto offrire una chance in più al lupo italiano.
Nonostante grazie alle numerose campagne d'informazione e sensibilizzazione una gran parte dei pregiudizi sul lupo siano stati estirpati e nonostante alcune regioni prevedano rimborsi per i danni alla zootecnia provocati dai canidi selvatici, fare accettare la presenza di un predatore di così cattiva fama, soprattutto in territori in cui non lo si vedeva ormai da anni, non è stato un processo facile e che ancora non si è del tutto concluso (la proposta di un nuovo Piano di Conservazione e Gestione del Lupo da parte del Ministero dell'Ambiente, in grado di consentire l'abbattimento di lupi e ibridi lupo-cane, ha caratterizzato l'inizio del 2016, suscitando le agguerrite proteste delle associazioni animaliste). Ma c'è un più grave nemico per la salvaguardia della specie canis lupus italicus e che, per quanto possa apparire paradossale, unisce le istanze dei proprietari di bestiame, degli animalisti e dei biologi che si occupano di conservazione della specie: il randagismo. I cani randagi, oltre a correre i rischi che tutti conoscono e a essere una delle preoccupazioni costanti degli animalisti dell'intero stivale, arrecano un grave danno alla conservazione del patrimonio genetico del lupo: l'ibridazione infatti rischia di cancellare per sempre la parola “lupo” dai nostri vocabolari. Inoltre, gli ibridi di cane e lupo sono più dannosi per le greggi perché si avvicinano maggiormente agli insediamenti umani. Il rischio è quello della scomparsa di una “specie ombrello” che collocandosi all'apice della catena alimentare ha un importante ruolo di controllo indiretto sugli altri predatori e regola la popolazione di cervi e cinghiali, specie che, se in sovrannumero, possono avere un impatto negativo sulla flora.

Non di rado l'autore cede alla tentazione di abbandonarsi a toni di un appassionato lirismo da cantore della wilderness nostrana: la sua voce è, in questi passaggi, quella dell'escursionista innamorato della montagna, osservatore della flora e della fauna che la caratterizza e su cui lo sguardo indugia con l'inestinguibile curiosità di chi non riesce a stare lontano dalla natura e dall'avventura che continuamente essa reca con sé. Il suo racconto ci porta a spasso nelle foreste casentinesi, tra gli antichi abeti di Camaldoli, nel lussureggiare delle faggete fino all'oasi ecologica di Sasso Fratino, dove nessuno può entrare dal 1959, riserva integrale dove ogni organismo nasce, si sviluppa e muore al riparo dagli occhi dell'uomo. La foresta è impenetrabile anche allo sguardo, si perde nelle tenebre originate dal suo stesso rigoglio. Alberi monumentali e arbusti custodiscono gelosamente i suoi segreti.

Il grande merito del volume risiede proprio in questo: nella ricerca e nel compiuto raggiungimento di un equilibrio - tanto a livello stilistico quanto contenutistico - tra diario di viaggio e trattazione etologica, reportage giornalistico e accorato poema d'amore per la foresta e la vita che la anima. Equilibrio che rende “La via del lupo” una lettura adatta a una vasta fetta di pubblico e non solo agli addetti ai lavori (che siano etologi, operatori, o storici dell'ambientalismo italiano): essa infatti accenderà gli animi di tutti coloro che, almeno una volta, hanno smarrito lo sguardo nell'intrico dei rami, chiedendosi quali fossero le riposte ciclicità che lì si avvicendavano; di chi, nel camminare lungo un sentiero di campagna, non ha potuto fare a meno di fermarsi e tendere le orecchie al richiamo di un uccello, a un fruscio fra i rami. Per tutti coloro che, insomma, hanno rivolto alla natura anche un solo fugace sguardo innamorato, specchiandosi in essa.