in

#FFF2015. Linda Lê a Firenze: "La scrittura mi ha riconciliato con il Vietnam"

- -
Incontriamo Linda Lê presso l’Institut français di Firenze, nella piazza Ognissanti affacciata sull’Arno, in un’atmosfera di cortese accoglienza e sollecita attenzione. La piccola saletta è gremita di persone. L’autrice franco-vietnamita ha l’eleganza innata dei francesi ma il riserbo e le sembianze tipici degli orientali: lunghi capelli neri con una frangetta che ombreggia lo sguardo a mandorla, Linda Lê si siede accanto all’interprete e risponde con voce sottile ma ferma alle domande di Titti Giuliani, la giornalista della Nazione chiamata a moderare l’incontro. 

Oltre un’ora di domande e risposte, con la partecipazione attiva del pubblico, non sono sufficienti ad approfondire fino in fondo l’ampiezza di temi e le riflessioni smosse dai due libri che l’autrice presenta: Come un’onda improvvisa (qui trovate la recensione) e Lettera al figlio che non avrò. Si parte dal primo, il romanzo corale che alterna quattro monologhi in quattro differenti momenti di una giornata, all’indomani della morte di Van, editor e revisore bozze vietnamita trapiantato a Parigi a soli 15 anni e deceduto a cinquanta, dopo essere stato investito dall’auto della moglie Lou, all’uscita della casa della sua amante Ulma. Come ci racconta l’autrice, la struttura del romanzo, che vede Van, Ulma, Lou e Laure (figlia di Van e Lou) raccontare e riflettere sugli avvenimenti che nell’ultimo anno hanno condotto al tragico epilogo della morte di Van, è nata quasi per caso, come ampliamento di un’idea di partenza: quella di analizzare il rapporto tra due persone, legate da vincoli di parentela, ma allo stesso tempo connesse da un’attrazione ambigua e pericolosa che, come una spirale, si evolve avviluppando ciò che ha intorno, attraendolo e trasformandolo per sempre.


La giornalista Titti Giuliani sottolinea quello che forse è l’aspetto più lampante di Come un’onda improvvisa: l’impossibilità di conoscersi e conoscere l’altro, l’incomunicabilità ineluttabile che lega ogni individuo agli altri, persino a coloro che con lui condividono un legame di sangue. Ma Linda Lê sorprende l’auditorio rispondendo che, al contrario, quello di Van, Lou, Laure e Ulma è anzi un percorso alla scoperta dell’altro, dell’alterità che, infine, permette di conoscere se stessi. Per capirlo, basta guardare al rapporto tra Van e Ulma, che porta l’uomo a guardare alle proprie origini e al proprio Paese di appartenenza (il Vietnam) con spirito pacificatore, con uno sguardo di riconciliazione che pone fine al suo continuo sentirsi straniero: straniero rispetto al Vietnam, che ha abbandonato ancora bambino e mai conosciuto davvero; straniero nei confronti della Francia che lo ha accolto, ma che lo fa sentire sempre più “altro”, lontano, diverso.

Alla domanda: quanto c’è di autobiografico in Come un’onda improvvisa?, la scrittrice risponde che Van è probabilmente il suo alter ego romanzesco, con lui condivide le origini vietnamite e le è particolarmente caro per il suo parlare da un Oltre distante anni luce dal qui e ora terreno. È grazie alla scrittura, ci racconta Linda, che anche il suo rapporto con il Vietnam, quest’ingombrante e complessa origine che condivide con Van, ha trovato pace. Da un legame conflittuale vissuto nel periodo adolescenziale e giovanile, grazie alla trasposizione letteraria, quasi come processo terapeutico, adesso riesce a guardare al suo Paese con sentimenti di distanza e riconciliazione. Una lezione valida, a ben vedere, per chiunque desideri trovare la via per superare un ostacolo emotivo, un’idea disturbante, un trauma del profondo: la scrittura diventa strumento per porre distanza tra sé e le cose, tra l’Io sofferente e ferito e un’identità che va ricostruendosi, riparte da una visione nuova degli eventi, che può nascere dalla loro elaborazione scritta.

Parlando di cifra autobiografica, non si può non fare riferimento a Lettera al figlio che non avrò, il secondo romanzo presentato a Firenze da Linda . È sicuramente il più autobiografico, ammette l’autrice, e parte da una richiesta dell’editore che ha dedicato un’intera collana alle lettere che non si ha mai la forza di scrivere, quelle parole destinate a qualcuno a cui non si ha il coraggio di rivolgersi.
Invitata a oltrepassare quest’invisibile linea di confine, Linda Lê ha scritto al figlio che mai metterà al mondo una lettera struggente eppur lucida che illustra i motivi di tale rinuncia. In questo senso, è la stessa autrice a ricordarlo, il libro non è sulla stessa lunghezza d’onda di Lettera a un bambino mai nato della fiorentina Oriana Fallaci, che racconta un aborto e non un rifiuto e una rinuncia della maternità. Tuttavia, la scrittrice vietnamita ci tiene a distinguere fra l’Io autore e l’Io narratore, sottolineando come, sebbene ci siano punti di contatto tra i due in Lettera al figlio che non avrò, sono anche molti gli elementi di lontananza (primo fra tutti, il ritratto certo non lusinghiero della madre della protagonista).

Ciò che colpisce, comunque, di questo libro (come ben sottolinea Titti Giuliani), è la sua contraddizione intrinseca: nel voler difendere la libertà di scegliere la rinuncia, il diritto di ogni donna ad essere Individuo, prima e a prescindere dall’essere (o meno) Madre, l’autrice si rivolge direttamente al suo Bambino, mai nato e mai concepito, rivolgendogli un appello disperato, raccontandogli i progetti, le preoccupazioni, le difficoltà che l’affliggono, quasi a proiettare in lui un bagaglio di maternità che, seppur inespresso, la protagonista sembra possedere. Non commenta, Linda Lê, tale affermazione, se non indirettamente: ammette che il paradosso della Lettera sta proprio in questo, in un destinatario che prende corpo progressivamente per la narratrice e appare sempre meno etereo e più corporeo. Sempre meno rinuncia e più realtà. 

Barbara Merendoni