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Il Salotto | Giorgio Manacorda, tra tragedia e poesia.

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Poeta e romanziere, germanista e critico militante, drammaturgo e pittore: Giorgio Manacorda è tutto questo. Esponente di una generazione che ha vissuto nella gioventù matura il Sessantotto, e che ha potuto conoscere una società letteraria ancora in salute. Scoperto come poeta da Pasolini, ha esordito come romanziere nel 2012 con Il corridoio di legno (Voland) che ha avuto ottimi riscontri di critica. La sua scrittura, molto fluida e spesso icastica, ha la capacità di sondare tensioni intime dell’umano rielaborando in modo originale elementi della letteratura più apprezzata. Giorgio Manacorda è quindi un cosmo denso di esperienze e letture che ispira più di una curiosità.

Come prima cosa, in omaggio al blog che ci ospita, Le voglio chiedere: che cosa L’ha spinta a scrivere un’Apologia del critico militante (Castelvecchi, 2006)?
L’occasione è stata la prefazione a una grande antologia dedicata alla critica militante curata da Paolo Febbraro. Io ho fatto molto il critico militante, sia sui quotidiani (La Stampa, La Repubblica, ecc.), sia con il mio annuario della poesia (sempre Castelvecchi, almeno fino a un certo punto). Penso che senza la critica militante (l’unica vera critica letteraria) rischia di scomparire la letteratura. D’altronde, se nessuno si prende il rischio del giudizio di valore avendo gli strumenti per leggere e motivare, restano solo soffietti editoriali (per carità, legittimi) e chiacchiere da bar o da salotto. Senza il critico militante non si costruisce l’edificio della letteratura, ovvero il canone.


Sono profondamente d’accordo, eppure il canone è stato, ed è tuttora, attaccato per la sua natura esclusiva e non inclusiva (penso ai gender studies e alla prospettiva post-coloniale). Che cosa ne pensa?

Penso che il gesto del critico militante che sceglie, giudica, scommette, è inevitabilmente arbitrario, quindi ontologicamente includente (se il giudizio è positivo) e escludente (se il giudizio è negativo). Detto questo temo le categorie “sociologiche”  (gender) o storiche (postcoloniali) e altre simili o diversissime. La produzione letteraria non è una torta con delle fette di colori diversi. Per il critico militante la torta è sempre quella, e non è rilevante se il capolavoro che vede viene da aree culturali o di genere che prima non c’erano. Il canone del futuro nasce tutti i giorni.

Lei può vantare anche una lunga carriera di germanista e traduttore, quali sono gli autori di cui percepisce una diretta influenza sulla Sua produzione letteraria?

L’influenza non è mai diretta, se lo è c’è qualcosa che non va. Sono gli altri che devono dire le influenze che percepiscono. Per la mia narrativa non so che pensare. Non mi sono mai posto il problema. Né nessuno me l’ha mai chiesto. Per la poesia, se proprio devo: Heine, Benn, Rilke, rimanendo all’area tedesca. Ho tradotto pochissimo. Solo le poesie di Klee e di George, e qualcosa per il teatro. Non ho mai tradotto né narrativa né saggistica.

Tra le influenze di cui non possiamo fare a meno di parlare però c’è la figura di Pier Paolo Pasolini. Ci potrebbe raccontare un aneddoto, che non ha avuto spazio in Pasolini a Villa Ada (Voland, 2014), che spieghi il Vostro rapporto?

Pasolini ha influenzato la mia poesia agli inizi. Purtroppo non ho un aneddoto “nuovo”. Come dico in Pasolini a Villa Ada non ho molta memoria.

Da quel che dice, sembra che si sia affrancato dall’influsso pasoliniano: che cosa c’era prima e cosa ne rimane nella Sua ultima raccolta poetica Viaggio al centro della terra (Elliot, 2014)?

Pasolini è stato importante quando avevo vent’anni, nelle prime poesie presentate da PPP in “Paragone” o in altre in “Nuovi Argomenti”. Qualcosa di “pasoliniano” forse è presente in L’esecutore (Guanda-Società di poesia 1981) e nelle poesie politiche raccolte in una plaquette (Comunista crepuscolare, Daga 1989). Al mio orecchio in Viaggio al centro della terra non c’è niente di pasoliniano. Il che, naturalmente, non vuol dire che non ci sia.

A proposito di Pasolini a Villa Ada, Lei è anche autore di drammi: che rapporto intrattiene con il palcoscenico e che peso ha questo sulla Sua narrativa?

Quando insegnavo all’Università della Calabria, ho  fondato il teatro regionale calabrese, l’ho presieduto e, dieci anni dopo, l’ho diretto. Negli anni successivi, a Roma, ho scritto una diecina di testi tutti andati in scena. Scrivendo per il teatro ho imparato a fare i dialoghi – che in almeno due dei miei romanzi (Delitto e Villa Ada e Il cargo giapponese) hanno un ruolo importante nel meccanismo narrativo.

Perché questa passione proprio per il teatro e non, per esempio, per il cinema – mezzo fortemente desiderato da molti scrittori contemporanei e coltivato anche da Pasolini?

La mia vera passione è sempre stata il cinema. Da ragazzo volevo fare il Centro Sperimentale. Non vado quasi più a teatro, le cose buone sono poche, e per trovarle ti devi sorbire troppa “monnezza”, come si dice a Roma. Uno spettacolo teatrale che non funziona  è una vera tortura. Il cinema, invece, anche nei casi peggiori è sopportabile. Io, comunque, ho solo scritto per il teatro. Se me lo avessero offerto avrei scritto anche per cinema.

Prima ho parlato di peso sulla narrativa perché nel Suo ultimo romanzo, Terrarium, il teatro ha un ruolo fondamentale, soprattutto come tragedia. Secondo Lei che valore conoscitivo può avere il tragico nella letteratura, oggi?

Direi che senza il tragico non c’è letteratura. Il Moderno ha tentato di cancellare la dimensione tragica, basti pensare alle avanguardie. Io credo che anche la poesia più lirica, se non ha un fondo tragico non è niente. Non è letteratura, se con questa parola designiamo il luogo del valore “poetico”, cioè, appunto, conoscitivo. Ovvero ciò che gli umani tentano (in larga parte sempre invano) di conoscere di se stessi, della propria specie animale.

Dalle Sue affermazioni sembra che Lei pensi a un ruolo ideale dello scrittore simile a quello di un esploratore delle profondità umane. Ma, secondo Lei, lo scrittore, oltre ad essere costretto a fare marketing di sé stesso (anche indossando le maschere più strambe), ha davvero un ruolo riconosciuto dalla società odierna? Che valore ha la sua parola, detta o scritta che sia?

Nessuno. Ma non è importante. Si tratta di una contingenza storica. Gli scrittori che, come dice Lei , fanno marketing di sé stessi (anche indossando le maschere più strambe), sono solo dei buffoni, dei giullari che ci sono sempre stati. Tanto per essere chiari: non credo a nessuna forma di engagement. L’impegno è irrilevante per la letteratura, per la poesia. La parola della poesia, invece, è assolutamente rilevante in quanto tale per l’antropos che la produce. L’infinito è rilevantissimo, ma è tutto meno che “impegnato”. Sartre in Che cos’è la letteratura, per teorizzare l’impegno è stato costretto a escludere la poesia, ma non si è reso conto che così ha escluso tutta la letteratura dal suo tentativo di dire che cos’è la letteratura.
Non ho mai pensato che lo scrittore sia un esploratore delle profondità umane (anche se capisco che il titolo del libro pubblicato da Elliot lo può far pensare). È che le profondità gli appartengono, sono lui, non può non dirle, non si tratta di esplorarle, sono loro (casomai) che esplorano lui e lo mettono nel mondo in quel modo e non un altro. Questo vale per tutti, ma lo scrittore lo porta alla luce, spesso (sempre) senza saperlo. Come diceva Klee: fa vedere.

Anche in Terrarium come nel Suo primo romanzo, Il corridoio di legno (Voland, 2012), c’è la presenza forte e lacerante di un conflitto familiare: come mai questa scelta ripetuta?

Non è stata una scelta. Lo vedo adesso che Lei me lo chiede. Quando scrivo non scelgo, scrivo e basta. D’altronde ogni vero scrittore ha dei nuclei profondi che affiorano come gli pare, e forse questo fa sì che - se c’è il valore letterario, poetico - alla fine, riguardino tutti.

Lei ha iniziato la Sua carriera letteraria con la poesia e questa ha un ruolo particolare nella Sua produzione, basti pensare a Il cargo giapponese (Voland, 2014). Con rari lettori e critici rarissimi, con una moltitudine di dilettanti acritici, Le chiedo: esiste ancora la poesia? Può ancora parlare al mondo?

Su questo non ci sono dubbi. La poesia non solo esiste e parla al mondo, ma è ineliminabile perché è “la forma della mente” (come recita il titolo di un mio libro) degli umani, quella più vicina al loro modo di pensare e, quindi, di esprimere quello che sono, nel bene e nel male. Per questo la poesia non è né bella né brutta, la poesia - se c’è - semplicemente è. Detto questo, i poeti veri sono pochissimi, più rari della più rara avis. Leopardi per l’Ottocento e Montale per il Novecento, per esempio.

Se dovesse consigliare tre poeti viventi, che nomi farebbe?

Mi costringe a fare il critico militante senza avere lo spazio per motivare. Io vorrei considerare ancora viventi poeti come Mario Luzi, Giorgio Caproni e Amelia Rosselli. I più grandi, direi, del Secondo Novecento. Comunque, sono solo due i poeti viventi  sui quali non ho dubbi: Patrizia Cavalli e Paolo Febbraro.

In conclusione è curioso notare come le copertine dei Suoi romanzi siano opera Sua: che interazione si viene a creare tra immagine e parole? Chi nasce prima?

Le parole nascono con le immagini e le immagini con le parole. Le parole sono (anche) iconiche. Questo, per inciso, non vale solo per la poesia, per la quale è evidente. Vale anche per il romanzo. Se non c’è quel nesso profondo e inestricabile tra parola e immagine, il romanzo (o il preteso tale) è cieco. Le parole non ci fanno vedere niente.
Per il resto, quei quadri non sono nati per le copertine, né è stata una mia idea. E’ stato l’editore a chiedermi di proporgli dei quadri per fare le copertine. Io ho molto resistito, mi sembrava di un narcisismo improponibile. Ma alla fine ho ceduto – magari per narcisismo!