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Jack Torrance c'est moi: Stephen King contro Stanley Kubrick

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I segreti di Shining
di Alessandro Gnocchi
Barney Edizioni, 2015

pp. 125
€ 13,50


Nella Nota dell'autore che chiude Doctor Sleep (il sequel di Shining pubblicato nel 2013), Stephen King racconta di aver pensato spesso, negli anni, al piccolo Danny Torrance. Quanti anni aveva adesso? Cosa gli era successo dopo quell'inverno all'Overlook Hotel? E sua madre, Wendy? "Dovevo sapere", spiega King: questa, in due parole, la genesi di Doctor Sleep. Ci sono però un paio di eredità parecchio ingombranti con cui il nuovo romanzo deve fare i conti ancora prima di nascere. Tanto per cominciare, a trentacinque anni dalla sua prima pubblicazione, Shining (1977) è ormai universalmente considerato uno dei testi più importanti della narrativa kinghiana, nonché uno dei romanzi più spaventosi di sempre:

Insieme con Le notti di Salem, Pet Sematary e It, Shining salta sempre fuori quando i miei lettori devono decidere quale mio libro li abbia davvero fatti cacare sotto.
E poi c'è "la faccenda del film di Stanley Kubrick", uscito nel 1980 e destinato a scavalcare nell'immaginario collettivo il romanzo stesso, dando il via a una delle guerre intellettuali più aspre e durature di sempre. Per chiunque, oggi, Jack Torrance ha la faccia di Jack Nicholson; per molti (anche tra quelli che le conoscono entrambe) la storia dei Torrance è quella di Kubrick, non quella di King. Il quale ovviamente non ha dubbi: per lui, si tratta semplicemente di un film
che per motivi a me ignoti molti ricordano come assolutamente terrorizzante. (Se lo avete visto senza leggere il romanzo, vi avverto che Doctor Sleep è il seguito del secondo, ovvero La Vera Storia della Famiglia Torrance). [trad. Giovanni Arduino]
Kubrick non si scomoda a rispondere: quando esce Doctor Sleep, è morto da più di dieci anni. Un dettaglio che la dice lunga su quanto sia ormai incancrenita l'eterna controversia "King contro Kubrick": così tanto da non cessare nemmeno con la morte di uno dei due contendenti. E forse, chissà, nemmeno con la morte di entrambi; in fondo siamo pur sempre nell'ambito del paranormale.


A mediare nella storia dell'incontro-scontro tra due uomini che in comune hanno solo le iniziali (S.K.) prova ora Alessandro Gnocchi, con il saggio breve ma denso I segreti di Shining. Nel libro Gnocchi racconta la genesi del romanzo e del film in rapporto alle inconciliabili personalità e ai sistemi di valori dei rispettivi geniali autori, dall'unico punto di vista utile: quello di chi non vuole giudicare, ma semplicemente capire.
Questa... è la storia di come due grandi artisti possano raccontare la stessa vicenda da opposte prospettive. Sarebbe sciocco stabilire quale sia lo sguardo giusto. Meglio capire perché entrambe le visioni interrogano e turbano la nostra coscienza con eguale forza.
Esponendo fatti, aneddoti e interpretazioni, ricostruendo le fonti letterarie di King e il modo di lavorare di Kubrick, origliando le telefonate tra i due (a Kubrick interessava parlare dei massimi sistemi, dell'inferno, dell'immortalità, sempre con scetticismo; a King, capire con chi aveva a che fare) fino all'unico incontro avvenuto sul set, il saggio di Gnocchi segue le linee di un dissenso sempre più ampio suggellato dall'interruzione di ogni rapporto di collaborazione. King dice: "Questo è un film. Fai il tuo film", e stop.

Come si è arrivati a tanto?

Le basi erano buone. Tratteggiando a grandi linee lo "stato dell'arte" della vita di King e Kubrick negli anni in cui i due lavorarono alla propria personale visione di Shining, Gnocchi mostra come la storia di Jack Torrance abbia fatto il suo ingresso nella vita di entrambi proprio nel momento in cui, ognuno a modo suo, King e Kubrick sentivano più impellente la necessità di dare nuova voce alla propria esperienza artistica.

Nel 1974, King ha già scritto due romanzi (Carrie, pubblicato quello stesso anno, e Le notti di Salem) che presto, grazie ai milioni di copie vendute, lo avrebbero liberato da ogni problema economico, affibbiandogli però al tempo stesso l'ambigua etichetta di "grande scrittore di bestseller". Entrambi sono ambientati nel New England e risentono profondamente dell'atmosfera socio-culturale delle cittadine di provincia del Maine. King vuole evitare di sclerotizzarsi: decide di cambiare aria e trasloca la famiglia a Boulder, in Colorado. Lì, durante un fine settimana funestato da incubi allo Stanley Hotel di Estes Park, concepisce e scrive la prima versione di Shining. Nel romanzo, prima inconsapevolmente poi sempre più chiaramente, King trasferisce gran parte delle proprie ansie e dipendenze di quel periodo. All'epoca non è solo un ex insegnante di inglese sfuggito a un mestiere inconcludente: è anche un drogato, un alcolizzato, un padre di famiglia con una moglie e due figli che spesso lo soffocano con un'opprimente sensazione di prigionia e inadeguatezza. Il ritratto di Jack Torrance, in pratica.

Scrivendo Shining, King lo utilizza dunque inconsciamente anche come strumento per esorcizzare le sue stesse paure. Non è un caso che quella dei Torrance sia, in un certo senso, una storia ottimistica: porta sull'orlo dell'abisso le possibilità di riscatto dell'individuo, ma all'ultimo momento gli lascia la possibilità di fare la scelta giusta.

Anche Kubrick, quando gli capita in mano Shining, non se la passa benissimo. Reduce dal fiasco di Barry Lyndon e perseguitato dalle accuse di fascismo e istigazione alla violenza guadagnategli da Arancia meccanica, Kubrick vive semi-recluso nella tenuta di Childwickbury, vicino a Londra, e cerca un'idea per una nuova sceneggiatura. Gli basta leggere le prime dieci pagine di Shining per capire di averla trovata. Quella storia, opportunamente rimaneggiata, gli avrebbe dato la possibilità di affrontare da un nuovo punto di vista alcuni dei suoi temi più cari: lo stallo della ragione umana sulla soglia dell'irrazionale (o del sovra-razionale), l'inconscio primitivo dell'uomo, le restrizioni del libero arbitrio, il bene e il male.

Insomma, King e Kubrick potevano contare in partenza su un certo numero di istanze comuni a entrambi. Peccato che queste istanze comuni abbiano finito per divaricarsi sempre di più, portando a conclusioni radicalmente incompatibili e a un disaccordo che, quasi subito, condusse King a prendere le distanze dal film e Kubrick a sminuire gli esiti narrativi del romanzo.

Da qui il secondo punto del saggio di Gnocchi: King e Kubrick non potevano non scontrarsi, perché i loro rispettivi mondi mentali, i loro sistemi di valori, le loro stesse concezioni della vita configurano un conflitto irreparabile su tutta la linea. E il campo di battaglia di quel conflitto è, tra le altre cose, il libero arbitrio di Jack Torrance.

Al di là di alcuni aspetti specifici che a King davano fastidio ("errori" di cast, cattiva gestione della violenza, scarso peso al sovrannaturale), è proprio nell'interpretazione della figura di Jack Torrance che si misura a maglie larghissime l'incolmabile distanza tra i due approcci. Jack è un uomo debole, inadeguato, assediato da frustrazioni e dipendenze, con punte di narcisismo egoistico che lo tengono in equilibrio precario tra l'amore per la famiglia e la repressione continua di una furia distruttrice. Ha in sé le caratteristiche essenziali del personaggio ambiguo che può salvarsi per un pelo o trascinare tutti gli altri nella sua rovina, ma solo nella versione di King la sua figura subisce lo sviluppo psicologico necessario a renderlo la cartina di tornasole dell'autentico messaggio veicolato dal romanzo. Per Kubrick, Jack è poco più che una marionetta nelle mani dell'Overlook, la cui fine è scritta fin dall'inizio: il ghigno glaciale del prologo mette subito in chiaro che il Torrance di Nicholson è una bomba a orologeria (infatti King fu sempre contrario al casting di Nicholson per la parte). Nessuna scelta, nessun riscatto. Nessuna libertà per la ragione.

Dall'opposta rielaborazione dell'evoluzione di Jack nascono i due finali della sua storia. In King Jack, strappato temporaneamente al Male dell'Overlook dall'amore per il figlio, lascia fuggire Danny e scende nella caldaia, morendo nell'esplosione dell'albergo. In Kubrick, si smarrisce nel labirinto mentre cerca di uccidere Danny e lì muore assiderato. Da una parte la scelta, dall'altra la condanna. Come osserva Gnocchi,

al centro di Shining c'è dunque la lotta tra il Bene e il Male. L'Overlook è il Male. Chi ne percorre i corridoi, rischia di essere corrotto dalla malvagità. Quando l'Overlook prende il sopravvento su Jack, ne sovverte l'ordine morale. Il Male diventa il Bene, il cattivo diventa buono, il carnefice diventa vittima... Eppure, nel delirio, mantiene la capacità di distinguere ciò che è Bene da ciò che è Male. E si riscatta nel finale attimo di lucidità... Shining affronta il problema del libero arbitrio.

Ma solo lo Shining di King. Quello di Kubrick

non sembra concedere alcuna forma di libero arbitrio ai suoi personaggi... Il protagonista è ingabbiato nel suo destino immutabile per l'eternità... Il Jack di King è un uomo in lotta con questi demoni. Il Jack di Kubrick si sottomette alla propria sorte.

La cosa curiosa è che, nelle critiche raccolte da Gnocchi, ogni volta che uno dei due si esprime sull'opera dell'altro dà l'impressione di averla capita meglio della propria. Per dire, secondo King un difetto del film di Kubrick sarebbe che "ha cercato il male nei personaggi e ha trasformato il film in una tragedia domestica con solo qualche vaga sfumatura soprannaturale": quando nel romanzo, a parte l'influenza dell'Overlook, King sviscera proprio il male che già covava dentro Jack. O Kubrick, che del libro elogia soprattutto "il bilanciamento tra psicologia e sovrannaturale. Sei portato a credere che il sovrannaturale si possa spiegare con la psicologia": quando nel film il sovrannaturale è visivamente preponderante e la psicologia di Jack sostanzialmente nulla.

Chi ha ragione? È più bello il libro o il film? Nessuna domanda (in generale, non solo per Shining) è più stupida di questa. King e Kubrick sono due personalità artistiche indipendenti, come indipendenti sono i prodotti del loro ingegno. Un libro e un film impiegano linguaggi diversi e rispondono a pulsioni stilistiche e narrative autonome. Forzare un confronto significa perdere di vista il nocciolo della questione, che invece a Gnocchi è ben chiaro: Jack Torrance è sia King sia Kubrick. Shining, depurato da ogni sovrastruttura ideologica, costituisce la matrice creativa di due opposti punti di vista sul mondo e sull'uomo, entrambi ugualmente legittimi e fruttuosi:

Nel confronto tra queste due grandi personalità, si riflettono due posizioni culturali che hanno attraversato tutto il Novecento (come minimo). L'umanista King contro l'esteta Kubrick. Il credente (nel soprannaturale, che è diverso dall'essere religioso) contro lo scettico. Lo scrittore morale (che sa collocare il Bene e il Male) contro il relativista. La cosa davvero affascinante è che entrambi hanno ragione, perché la storia di Jack, spogliata dalla personalità di King e Kubrick, si presta a entrambe le letture.

Gnocchi ci guida attraverso questo scontro di visioni con un saggio coinvolgente che unisce la competenza del critico e la capacità narrativa del documentarista, mantenendo sempre lo sguardo fisso sul punto essenziale di tutta la faccenda: il ruolo dell'uomo in un mondo troppo complesso per lui. Perché

è bello, forse necessario per sopravvivere, credere che Stephen King abbia ragione, anche se per la maggior parte del tempo ci sentiamo comparse in un film di Stanley Kubrick.


Luca Pantarotto
@HoldenCompany