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#SalTo14 Essere donna in Israele, la scrittrice Naomi Ragen si racconta

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Naomi Ragen scrive da trent’anni, più o meno da quando ha deciso di trasferirsi a Gerusalemme dagli Stati Uniti. Eppure in Italia i suoi romanzi circolano, tradotti, da appena due. Nove romanzi che hanno un unico filo conduttore: la donna all’interno dell’ebraismo ultra-ortodosso. Al Salone del Libro, ha raccontato la sua storia e la sua Gerusalemme, così lontana dai cliché, a cui siamo soliti affezionarci, e così amata; luogo di incontro e rinascita per la religione e le tradizioni ma anche luogo in cui le leggi dell’apparire si scontrano con quelle della violenza privata, sotterrandone i segreti inconfessabili. Naomi Ragen li porta alla luce, in maniera impietosa, lei, che nel suo sito si definisce: “Una donna ortodossa, femminista e iconoclasta, sostenitrice instancabile per i diritti delle donne in Israele, che conduce una campagna implacabile contro gli abusi domestici e i pregiudizi nei tribunali rabbinici”.
I romanzi pubblicati in Italia sono i suoi primi tre: Una moglie a Gerusalemme, L’amore proibito, L’amore violato (Editore Newton Compton).

All’incontro, voluto dall’Associazione Italia-Israele di Torino, si è molto parlato della sua “assenza” editoriale dal panorama italiano, e il moderatore Angelo Pezzana ha spiegato:
«Noi che non siamo editori, ma siamo l’Associazione Italia-Israele di Torino, l’abbiamo invitata perché è una delle autrici più rappresentative del suo paese, in Italia sono stati tradotti solo tre romanzi, che affrontano la realtà della donna in Israele e curiosamente la critica italiana l’ha ignorata, forse perché non le importa di essere conosciuta e scelta per altri motivi, oltre la sua scrittura, fuori da Israele. Un artista, purtroppo, per essere conosciuto fuori da Israele, oggi deve far sì che le sue opere riflettano una critica totale del paese in cui vive; anche Naomi critica le istituzioni religiose “conservatrici” in Israele, ma non fa parte di quel circolo scelto, amato, pubblicato di scrittori e registi, scelti perché critici, senza se e senza ma, verso Israele. Lei fa parte di quel gruppo che critica, con i se e con i ma e anche con molto amore per il suo paese».
Insieme a lui sono intervenute anche le giornaliste Elena Loewenthal e Fiamma Nirenstein


Elena Loewenthal, giornalista e studiosa del mondo ebraico, ha precisato il ruolo della Ragen nel panorama intellettuale contemporaneo: 
«Naomi Ragen è nata a New York, scrive per lo più in inglese ma fa parte di quell’universo composito e pieno di stimoli, che è la letteratura ebraica israeliana oggi, accanto alla scrittura di questi romanzi, che si leggono per la loro natura avvincente; sono romanzi con protagoniste femminili che affrontano la realtà della loro esistenza, dentro il composito mondo religioso ebraico, e la affrontano sempre in un susseguirsi di eventi incalzante e con una sorta di “stream of consciousness”, che porta le protagoniste a riflettere e raccontare di sé, raccontandoci la realtà di un mondo chiuso e religioso, che spesso consideriamo uniforme ma è molto composito; di questo mondo altri scrittori hanno esplorato le sfumature, come ad esempio Judith Rotem, ma nessuno come Naomi Ragen ha saputo come farne una materia letteraria a tutto tondo. E nessuno come lei ha saputo creare una letteratura di carattere popolare nel senso migliore, ovvero riuscire, pur affrontando una letteratura che situa i suoi personaggi al di là di una barriera invalicabile riesce ad essere familiare, per la grande forza comunicativa dei suoi personaggi. A volte la letteratura sembra fare il contrario, e la sua è una letteratura profondamente comunicativa e la posizione della donna in questo mondo, come nel nostro, è centrale; sia nel suo impegno civile e politico nel senso alto, sia nella sua condizione nell’ebraismo e nello stato di Israele. In quanto donne e custodi dell’ebraismo, visto che è ebreo chi nasce o chi si converte all’ebraismo, questo fa sì che la madre sia custode dell’identità ebraica, ma nel mondo religioso ebraico tradizionale la stessa ha una grossa misura di esclusione, ad esempio dalla preghiera collettiva. Naomi Ragen dice delle donne che non devono ambire a condividere tutti i valori tradizionali dell’ebreo religioso, ma trovare la strada di affermazione della propria identità alternativa, il progresso non sta nell’assimilarsi agli altri ma nel trovare una strada nostra che ci ponga ad uno stesso livello ma non allo stesso modo».
Fiamma Nirenstein ha aggiunto le sue personali esperienze ma anche le sue riflessioni sull’opera della scrittrice: 
«Nei testi codificati dell’ebraismo vi sono tutte figure femminili di leadership e nella storia ebraica contemporanea è la stessa cosa, ovunque ti giri la presenza di donne ebree che hanno sulle spalle questi millenni di tradizione maschilista, anche se è questo un vocabolo che ha bisogno di molto pensiero, e dall’altra parte invece vi è un dictat importante: quello dello studio. Da una parte l’imperativo allo studio, quindi, ma non l’inserimento nella vita religiosa attiva; Naomi scava e lavora su questo dualismo che porta di fatto alle donne nella democrazia. In una moglie a Gerusalemme la protagonista, vittima delle violenze del marito, non arriva alla condanna della religione. Naomi non rinuncia né alla sua religione né alla sua terra nonostante l’abbia fatta patire tanto. I suoi sono plot molto complicati e hanno sempre una soluzione stravagante, figlia di una grande fantasia e per fortuna c’è il lieto fine, e Naomi con un giro che non ti aspetti ci arriva in maniera inconsueta».
Naomi Ragen, infine, si è presentata con queste parole al pubblico del salone di Torino:
«Come mi sono avvicinata alla narrazione? Sono nata in America, mio padre proveniva da una famiglia proveniente dall’Ucraina, bene integrata, e mia madre da una famiglia ebrea molto religiosa, ma non eravamo molto religiosi; ad esempio non osservavamo lo Shabbat, e non ho ricordi legati alla mia famiglia come una famiglia religiosa. Quando ho compiuto sei anni mio padre è morto, mia madre è rimasta vedova con tre bambini piccoli, in uno dei quartieri più poveri di New York e mio fratello frequentava una scuola che a mia madre non piaceva per nulla, così ha deciso di iscriverlo ad una scuola ebraica, perché nonostante fosse costosa vi erano delle borse di studio per le famiglie povere e così provò; ma visto che mio fratello non era troppo grande per frequentarla, decisero di iscrivere me. Cominciò così il mio percorso, a sei anni, presso una scuola ortodossa. Non conoscevo nulla della mia religione, cultura, storia, ero una ragazzina americana come molte altre, pian piano ho appreso l’ebraico e così ho iniziato a capirne di più della mia identità, fino alla decisione inevitabile, una volta cresciuta, di trasferirmi a Gerusalemme. Lì pensavo di essere una persona molto religiosa ma mi sono scontrata con una realtà che non conoscevo; che ho deciso di raccontare nei miei romanzi, andando anche contro determinate chiusure dell’ebraismo più ortodosso».