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CriticaLibera: Quindi passava il tempo, intervista a Valentina Barbieri

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Ascoltate
come respira
il pianeta Sarajevo
Ascoltate
come piange la Ragazza:
“Morte, non mi prendere!”
Quante volte
piangendo
abbiamo detto
le nostre ardenti preghiere per la pace?
Se ne infischia la Morte della lacrima della ragazza,
se ne infischia la Morte delle preghiere dell’uomo.
                                                                                                                                
Aprile 1992, Sarajevo.
Centinaia di bambini nascono in una città sotto assedio; la luce è il loro destino: nati, sono la luce nel buio di una guerra lunga quattro anni; cresciuti, devono liberare la luce che portano dentro e ricucire l’anima strappata della loro città.
Novembre 1992, Italia.
Nasce Valentina, una ragazza reggiana, che della sua impertinenza fa la chiave per scoprire il mondo e ridurne le distanze: ascolta Valentina, ascolta e racconta.
Aprile 2013, Italia-Sarajevo.
Valentina e la sua impertinenza partono per Sarajevo, alla ricerca dei ragazzi bosniaci, a lei coetanei, e del loro destino di luce e costruzione. Valentina vuole scoprire cosa significhi aprire gli occhi per la prima volta tra la guerra e per farlo si avvale della collaborazione del regista Alessandro Scillitani, già autore fra gli altri de Il risveglio del fiume segreto, presentato alla 69a Mostra del Cinema di Venezia.

Nasce così il film-documentario Quindi passava il tempo.

Valentina e il suo zaino blu, Alessandro e la sua Canon 60D partono per la Bosnia: una settimana per cercare e farsi trovare dalle voci, le memorie, i colori di una terra e della sua gioventù. Le parole di Valentina guardano quello che gli occhi di Alessandro sanno raccontare e cioè che  gli sguardi dei giovani sono lunghi, coprono chilometri, destini, paesi e speranze; che gli sguardi dei giovani sono forti: liberi sotto assedio, leggono allo specchio la storia, la ripensano e creano il futuro.

Ascoltate
come respira
il pianeta Sarajevo.
Guardate
come fiorisce
il pianeta Sarajevo!
                                                                     Abdulah Sidran, Pianeta Sarajevo


Oggi Criticalibera ospita Valentina Barbieri, l'ideatrice di Quindi passava il tempo, in un'intervista che parla di cevapcici e di occasioni che si creano, di giovani, di speranze, della bellezza e della sua complessità, insomma in un'intervista che parla "parole eterne".

21 anni, piglio impertinente e il vizio del racconto: da qui come si sceglie Sarajevo?
Sarajevo ha scelto me. Non conoscevo quasi nulla della Bosnia fino ad un anno fa. Una sera dell'inverno scorso sono andata al cinema a vedere “Venuto al mondo” con mia madre. Aver gettato lo sguardo su “Sarajevo 1992” in una scena finale del film è stata la folgorazione che mi ha spinto ad andare. Sono nata in quell'anno, con questo viaggio in Bosnia volevo incontrare i miei coetanei nati e transitati sulla guerra.

Come hai organizzato il tuo viaggio? Quanto è durato, come hai scelto le persone con cui parlare?
Mi sono messa a studiare il più possibile. Ho sfogliato libri, letto interviste, guardato documentari e film sulla Bosnia. Poi mi sono detta: “Parto con la consapevolezza di saperne poco. Dunque lascio a casa ogni pregiudizio”. Siamo stati in Bosnia una settimana a fine aprile 2013. Avevo qualche contatto dall'Italia come quello con l'attrice Roberta Biagiarelli o con l'associazione di Jovan Divjak. Pochi incontri fissati, a dire il vero. Tutto il resto è arrivato, si sono create le occasioni. Non ho scelto le persone con cui parlare. Mi sono lasciata trasportare molto dagli eventi. Cercavo giovani da intervistare nelle loro case, nei loro luoghi. Alcuni giovani, come quelli di Srebrenica, sono arrivati senza che io li avessi cercati. Erano lì con noi  nel luogo e al momento giusto.

“Quindi passava il tempo”: da dove nasce il titolo del film?
Il titolo è tratto dalla poesia “Quelli che transitano” del poeta bosniaco Abdulah Sidran contenuta nella raccolta “La bara di Sarajevo”. E' una poesia scritta prima della guerra e rivolta ai sefarditi(ebrei spagnoli) a Sarajevo. L'ho scelta perché contiene parole eterne che si intrecciano con il refrain “Quindi/Poi/E passava il tempo”: quasi a ricordarci che dopotutto, nel bene e nel male, il tempo passa. Le cose cambiano, i volti invecchiano, i giovani crescono.

Nel cortometraggio torna spesso la parola "anima". Dopo esserti immersa nelle parole e negli occhi dei giovani di Sarajevo, come descrivi tu l’anima di quella città?
Sarajevo non ha una sola anima, ne ha innumerevoli. Sarebbe quasi riduttivo circoscrivere e tentare di descrivere un qualcosa che è estremamente complesso. Sarajevo come la Bosnia possiede la bellezza della complessità. E' in un certo senso enigmatica, sorprendente. Ti sconvolge per gli accostamenti architettonici, culturali, culinari. E' un fitto crogiolo di esperienze. Tutto in Bosnia ti spinge all'ascolto.

In cosa si misura la distanza e in cosa la vicinanza tra le speranze dei giovani in Italia e in Bosnia?
Dimentichiamoci di essere giovani d'Italia. Siamo giovani e basta. Distanti e vicini l'uno all'altro per diverse ragioni. In Bosnia ci sono tante tipologie di giovani come in Italia e nel mondo: quelli più fortunati che hanno la possibilità di studiare, viaggiare e divertirsi e quelli che non sanno come sfamarsi. Ho incontrato durante il mio viaggio chi è disposto a rimanere nel proprio Paese e combattere per ritagliarsi una fetta di futuro e chi invece è pronto a lasciare la Bosnia in cerca di occasioni migliori. Ho visto tanti sorrisi, tanta determinazione. Del resto, siamo giovani. Tocca a noi credere ancora in qualcosa.

C’è un’immagine che con delicata prepotenza ti rimane addosso, dopo la visione del film: quella del bambino bosniaco che dialoga e gioca con il suo passato, rigirando tra le mani i cilindri monumento su cui sono scritti i nomi dei bambini caduti in guerra. Valentina, come racconteresti Sarajevo ad un bambino?
A quel bambino direi: tienili tra le mani i morti del tuo Paese, non calpestarli e vai avanti. Mangia cevapcici e kiflice fino a soffocarti, da grande ricordati di entrare nella Biblioteca Nazionale che è in piedi dopo vent'anni, di divertirti e visitare il mondo per poi tornare a Sarajevo.

Valentina, lasciaci con un colore, un profumo di quella terra.
Vi lascio con un paio di orecchini a forma di cuore che Hariz mi ha regalato dicendomi “This is the soul of Srebrenica”, con il ricordo dei cevapcici affogati nello yogurt che abbiamo mangiato a Tuzla con amici bosniaci e italiani e quel pranzo al “To be or not to be” di Sarajevo con il “or not to be” barrato.