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Povero Ricardito che è in noi

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Avventure della ragazza cattiva
(Travesuras de la niña mala)
di Mario Vargas Llosa

Einaudi, 2006
pp. 362

Huachaferias. Parola chiave di questo che non è il tipico romanzo sudamericano da realismo magico seppur non manchino del tutto certe atmosfere come il capitolo su Arquimedes, il costruttore di frangiflutti. Ma non chiedetemi cosa significa visto che è espressione peruviana intraducibile. O quasi. Scrive Vargas Llosa: 
«uno dei contributi del Perù all’esperienza universale. È una visione del mondo e allo stesso tempo un’estetica, un modo di sentire, pensare, godere, esprimersi e giudicare gli altri». 
Uno dei contributi del Perù alla civiltà, niente meno. Scordiamoci per un attimo che l’autore è… peruviano e, dunque, arbitro parziale.

In ogni caso Huachafa, tra Lima e il Machu Picchu, si usa grossomodo per una persona di umili risorse che cerca di mostrarsi maggiore di quel che è. Nel romanzo, le Huachaferias sono le affettuosità che Ricardo tributa alla sua innamorata: sfortunatamente, una ragazza cattiva. Si può dire, in letteratura ma anche nella vita, che la felicità altrui risulta sempre un po’ noiosa. Molto più appassionante è l’infelicità, specialmente se riguarda il protagonista di un libro. Così, da lettori possiamo consolarci della nostra precarietà, esorcizzandola addirittura, commisurandola col suo disastro. E a proposito di disastri, il protagonista di questo libro, è una garanzia.

Ma c’è un ma… la protagonista, che si materializza ai quattro angoli del mondo, da Parigi a Londra, da Tokio a Madrid, ovunque Ricardo sia condotto dal suo lavoro di traduttore e interprete, è una di quelle donne capaci di fare impazzire chiunque abbia la sfortuna di innamorarsi di lei. Per molte pagine nemmeno ha un nome: la cilenita, la peruanita, più tutti i cognomi degli uomini che sposa per la disperazione di Ricardo, che la chiama semplicemente Niña Mala. Ed è qui che scatta il meccanismo delicato: perché se pretendi catarticamente di liberarti delle tue delusioni leggendo quelle di un io narrante, nei confronti di Ricardo c’è invece una commiserazione crescente, che diventa, vorrei dire, tifo da stadio. E finisci per soffrire perfino di lui. In pratica due volte.

Nell’intervallo fra un’apparizione e l’altra della Niña Mala è come se la vita di Ricardo tendesse ad ammosciarsi e ogni tanto scatta la paura che stia per ammosciarsi pure il romanzo che invece regge alla grande. Ricardo la toglie dai guai, sempre, e ogni volta dovrà pentirsene. La catarsi finale in effetti c’è, ma è quella di Ricardo stesso, ormai anziano, che sublima le tante pene componendo il romanzo che teniamo fra le mani. È la conferma dell’eterna regola della letteratura: si possono scrivere poesie o romanzi d’amore solo in assenza dell’oggetto. Perché lontano nel tempo e nello spazio, morto, infelice. Insomma, l’amore è fonte straordinaria d’ispirazione solo a patto che si sia spento: non è così anche fuori dalle pagine di un libro?