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#SalTo13 - Aforismi e poesie al Salone del libro

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Federico B. Zaffagno - Fabrizio Caramagna - Menotti Lerro a #SalTo13

Che la poesia sia un genere di nicchia è cosa risaputa, soprattutto ai poeti stessi che vivono questa situazione con rassegnazione e sconforto.
Il suo pregio principale - la brevità – le si ritorce contro per la rapidità e facilità, apparente, dell’elaborazione: comodo rifugio alla vanità di chi è più intento a marcare e imbrattare il proprio territorio spirituale piuttosto che viverlo.
Non è però l’unico genere letterario che non riempie desolatamente gli incontri letterari dedicati (escludendo i premi che danno formale credito a quanto indicato sopra): il suo analogo compagno di viaggio è l’aforisma, di cui ironicamente è stato detto essere suo fratello minore, “privo di talento e affetto da sordità tonale”.
Sembra che in questi due modi espressivi ci sia un’inflazione di autori che evidentemente leggono solo se stessi e che poco conoscono di letteratura o di tecnica letteraria, ecc. e pensano piuttosto che sia sufficiente provare alcuni sentimenti sinceri (che, per carità, conservano una loro dignità) per buttarli caoticamente su un foglio bianco, a snervante sfida del ridicolo e del banale.
Per questo, da tempo, il mio interesse per la poesia si è come ibernato o ridotto a una spiluccata rilettura dei classici (Leopardi, Ungaretti, D’Annunzio über alles).
Da qualche anno (o forse da sempre, chissà) ho approfondito così la conoscenza dell’aforisma, affascinato dai grandi moralisti classici francesi (come La Rochefoucauld, La Bruyère, Chamfort, ma qui mi fermo per evitare di dimenticarne qualcuno che non potrei non citare), passando dai mostri sacri del Novecento come Cioran o Dávila, per arrivare infine al cinismo raffinato degli aforisti contemporanei serbi (consiglio fortemente la lettura di Afocalypse, un’antologia specializzata – l’unica, a mia conoscenza - curata dalla Genesi Editrice).

Dunque, date queste premesse, non potevo mancare all’incontro al Salone Internazione del libro di Torino in cui si “fronteggiavano” un aforista, Federico Basso Zaffagno e un poeta, Menotti Lerro, tanto più che la presentazione dei loro rispettivi libri ,“Il re del proprio mondo” e “Nel nome del padre” , era moderata da Fabrizio Caramagna, uno dei più attenti studiosi del genere aforistico in Italia (assieme a Gino Ruozzi), curatore del sito web Aforisticamente, da non molto anche Collana di Genesi Editrice.
Basso Zaffagno è un aforista giovane, considerata l’età media cui generalmente si approda all’aforisma (Carlo Gragnani è l’esempio più estremo: iniziò a ottanta anni circa e scrisse aforismi fino a cento anni) ma con una solida conoscenza del genere.
“La ragione di questa raccolta”, accenna nell’introduzione, è “segnalare dei punti di partenza da cui combattere dogmi che vorrebbero negare la libertà di farsi un’opinione e di dare un giudizio sugli avvenimenti, sulle categorie, sulle storie”.
Una raccolta di aforismi che si può considerare un saggio, secondo l’editore Sandro Gros-Pietro, di educazione etica, civile, religiosa, erotica, politica e sportiva, “anzi, è un racconto, senza vicenda e senza protagonisti”.

Menotti Lerro invece è un poeta con una discreta fama internazionale, che ha studiato e insegnato all’Università di Reading in Inghilterra e Salerno, e autore di un buon numero di pubblicazioni, non solo poesie ma anche racconti e aforismi. Cura la Collana “Poeti senza cielo”, sempre della Genesi. Confessa che la Collana prende il titolo per l’insolita e sorprendente sensazione provata a Milano, uno dei tanti approdi del suo pellegrinare:
Fulmini e saette
bruciate nelle vie della città maledettel’ombra del lupo che vaga nelle nottisenza cielo, quando i diavoli fabbricanoponti e gli angeli si amano con ardorenei fienili, lontani dagli occhi divini.”
Nell’incontro, Menotti stesso ha letto magistralmente - con voce baritonale - alcune sue poesie e, confesso, mi sono emozionato, scoprendo un mondo fatto di suggestioni e incanti.
Mondo che la vera poesia, con la sua particolare musicalità, sa donarci facendo vibrare i nostri istinti primordiali, “folle terapia” delle nostre sofferenze:
Sono le parole piccole, purissime gocce.
Folle terapia, la poesia,all’impossibile sfociare dell’oceanoche si agita sulle coste del corpo.
Possiamo affermare che la linea di demarcazione, che distingue i due generi risieda nell’essere la poesia attenta prevalentemente all’interiorità e al sentimento mentre l’aforisma alla razionalità o alla moralità?
Sia Basso Zaffagno che Menotti hanno voluto rivendicare la presenza delle diversi componenti nei rispettivi generi, come a dire che si tratta solo di formali classificazioni che non esauriscono il rispettivo ambito di competenza.
Rimangono sicuramente distinti nella tecnica adottata (ci sono anche tentativi di alcuni autori di unirli, ad esempio i poesismi di Donato Di Poce) ma senza troppe convenzioni.
Probabilmente, l’aforisma lascia un vuoto che il lettore dovrebbe riempiere con un pensiero, con una riflessione meditata, mentre la poesia è come un lasciarsi cullare, un affidarsi all’istinto, un ricercare ospitalità al proprio io.
Se fossero viaggi, l’aforisma sarebbe una trasferta, la poesia un’avventura.
E’ vero che l’aforisma tende a scardinare la realtà, a far riflettere il lettore (Cioran scriveva che “l’aforisma è un fuoco senza fiamma”, aggiungendo che “più ancora che nella poesia, è nell'aforisma che la parola è dio”) mentre la poesia parla più a se stessi, al desiderio, ma si tratta, come ha sottolineato Basso Zaffagno, di una sorta di “porta girevole”.
Perché l’individuo non si esaurisce nella razionalità - che pur lo distingue dagli altri esseri viventi – ma è pienamente inserito in un esclusivo ethos dove:
 “Basta un verso per ritrovarsi
perso nel magma che ci contiene

Giuseppe Savarino