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"Metà di un sole giallo": il sangue africano, il silenzio occidentale

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Metà di un sole giallo
di Chimamanda Ngozi Adichie

Einaudi, 2008

pp. 456



Metà di un sole giallo è un ottimo esempio di letteratura postcoloniale: una storia corale che cerca di raccontare le diverse prospettive di un mondo, e di rivelare attraverso sensibilità complementari i conflitti e le identità di un popolo. Chimamanda N. Adichie, giovane autrice di origini Igbo, affronta questa difficile prova narrativa con piglio deciso, dipingendo un'intensa, dolorosa pagina della storia africana: il tentativo  del Biafra di rendersi indipendente dalla Nigeria, che costò un carissimo prezzo di miseria e violenze, sotto la morsa della potenza coloniale britannica e gli sguardi, pietistici ma pieni di pregiudizi, degli occidentali che conobbero quest'angolo di mondo grazie alle fotografie di bambini malati di kwashiorkor. 



Si tratta di un romanzo che, a dispetto di un andamento piano e scorrevole, fa riflettere anche dopo aver terminato la lettura. Ammetto di aver trascorso diversi giorni interrogandomi sul significato di certi barlumi simbolici, puntiformi ma indelebili, che vanno decisamente oltre la denuncia della povertà e della guerra di un popolo. La Metà di un sole giallo è il simbolo che campeggia nella bandiera del Biafra, ma anche un indizio interpretativo sulla chiave di lettura fondamentale di questo libro: la mutilazione simbolica. Non a caso, la struttura narrativa è triadica solo in apparenza: i punti di vista dei capitoli sono affidati a tre personaggi differenti - la bella e fragile Olanna, il superstizioso ragazzo di villaggio Ugwu, l'aspirante scrittore inglese Richard Churchill - ma in realtà ognuno di essi ha un personaggio (o un gruppo di personaggi) che lo completa per opposizione. Ugwu, protagonista di un suo percorso di formazione, cerca di definirsi in base al rapporto con diverse figure femminili, in un contesto in cui la brutalità della guerra brucia ogni forma di amore e dignità (Nnesinachi, Olanna, Eberechi); Richard, come tutti i personaggi occidentali che appaiono nel romanzo, soffre di un'impotenza sessuale e, di rimando, creativa, che cerca continuamente di compensare nel rapporto, maldestro, con rivali dominanti (Madu, Odenigbo); ma il rapporto di complementarietà più forte nel romanzo è tra Olanna e Kainene, due gemelle eterozigote e quanto mai diverse. La sensualità intimistica della prima si scontra con la cinica durezza della seconda, e quest'opposizione si intreccia con le vicende belliche offrendo una lettura domestica dell'erosione socio-culturale subita da un Paese in guerra.
Un esempio dai motivi fondamentali del romanzo. Entrambe le sorelle, in momenti diversi del conflitto, subiscono uno shock speculare: una donna mostra a Olanna la testa della propria figlia uccisa, che ha portato con sé nella fuga dall'attacco nigeriano; ancora in fuga verso un campo di rifugiati, Kainene assisterà alla morte del suo houseboy, il cui corpo, privo della testa, continuerà correre per qualche metro. La donna-corpo, Olanna, e la donna-intelletto, Kainene, assistono alla mutilazione simbolica di ciò che principalmente le contraddistingue. Credo sia il tema principale di questo libro, che non a caso si conclude con un'altra abnorme mutilazione simbolica (una scomparsa), che viene compensata con un atto di scrittura. Il mondo taceva mentre noi morivamo: ma non sarà Richard a scrivere il libro-nel-libro. Per quanto si dica Biafran, per quanto l'idea sia stata sua, non può farlo: la sua penna di occidentale è sterile; sarà qualcun altro a colmare il vuoto, a espiare l'abiezione del sangue con l'inchiostro, mentre il resto del mondo continua a tacere.

Laura Ingallinella