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Vasco Rialzo: Adéu. Romanzo techno

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Adéu
di Vasco Rialzo
Pendragon, 2012
Sono a Bologna, da un po’ di tempo ormai. Annoiato e tendenzialmente depresso. La testa segue percorsi guasti, malati, perversi. Non sto bene, è evidente, mi capita di frequente. Un uomo difficile, lunatico, fragile. Vulnerabile agli eventi avversi. Non per niente dicono che sono pesante. Molto pesante, come il piombo. Che, è noto, pesa un sacco e rende la piombaggine, che viene da piombo, appunto, ben pasciuta e pesante, appunto. Tanto pesante, e pasciuta, che mi confondo da solo, con le mie stesse mani. E mi perdo, mi distraggo con niente e per niente, smarrendomi in me stesso. Sono fatto così, d’altra parte. Penso troppo. Me lo dice sempre mio padre. Pensa meno e fai di più, è il suo motto. Ma poi, anche quando ci provo e seguo il suo saggio consiglio, penso a quello che sto facendo. E il giochino riprende daccapo e allora mi dico da solo che non c’è problema, perché dopotutto è farina del mio sacco, lo è senza dubbio, su questo non ci piove, pur non sapendo affatto dove potrebbe piovere. E dove sia tutta questa farina. Sacco incluso.
Ho scelto di riportare quasi interamente la prima pagina di Adéu, il romanzo techno di Vasco Rialzo, pseudonimo di Emanuele Cimatti, giovane autore dell’area bolognese, classe 1970.
E ho fatto questa scelta per almeno due ragioni, che mi sembrano – s’intende – ben fondate.
Innanzi tutto perché, se è vero che fin dalle primissime pagine di un libro si può riuscire a capire se valga la pena o meno proseguire nella lettura di un’opera, a me pare che queste dieci righe siano già bastevoli per conferire un giudizio di merito decisamente positivo a quello che l’autore stesso definisce il suo primo “romanzo techno”.
La sintassi brachilogica è intrigante e completamente sincera, l’andatura ragionativa è svelata e verosimile, pur restando, come per una sorta di inversa pudicizia, mai particolarmente ammiccante nei confronti del lettore. Lettore che, proprio in virtù di questa sorta di abbassamento della barriera letteraria, non fatica ad instaurare con il protagonista un immediato rapporto di complicità.
Sia che susciti viva simpatia questa vena polemica e controversa dell’io narrante, sia che risulti, invece, quasi urticante e spaventevole – giacché presentare le nude debolezze di un problematico uomo qualunque è cosa che infastidisce sempre un po’, nella corsa all’immedesimazione approssimativa con la figura eroica vagheggiata in un romanzo tipicamente inteso -, in entrambi i casi, dunque, si diceva, l’autore riesce a livellare immediatamente le distanze fra scrittura e pubblico. E questo, a prescindere dai gusti personali, resta un gran merito, per la letteratura non solo contemporanea, ma ovviamente di ogni tempo.
L’altra motivazione pertiene più strettamente al regno del “techno”. Il richiamo, anzi forse dovrei dire l’eco musicale è innegabile, l’indugio ossessivo su un battere e levare ipotrofico, monocorde, obnubilante. Ma la definizione letteraria di tale esperimento assume tutt’altra connotazione, proprio in virtù dello squisito gesto linguistico dell’autore.
Il fraseggio è ironico e parodizzato, la spezzatura narcolettica delle riflessioni, pressoché ininterrotte, che conducono il protagonista da uno stadio all’altro di una reiterata incoerenza emozionale, si attesta in modo irriverente su uno spartito che è tanto più simile a quello suonato da un’orchestra sinfonica, addirittura più affine, oserei, al sussurro da camera che al rimbombo assordante da discoteca.
Siamo al cospetto della (solita?) crisi dell’uomo e della società, una crisi assoluta, maltrattata però, sbeffeggiata prima che elevata a nucleo centrale di una narrazione per niente indolente, tutt’affatto dispotica. La disperazione del protagonista che, alla fine, sarà costretto a dire “Adéu”  (addio, dunque, ma in primis a se stesso) non è una lallazione letteraria, non è una lagna viziata che ricerca il parossismo vizioso. È, al più, una maniera onesta e sintomatica che concorre a descrivere lo smarrimento storico e sostanziale dell’epoca nella quale ci troviamo a vivere.
Altra nota piacevole: il libro inizia e si conclude con due lettere. Due missive speculari e antitetiche, provenienti da due diffratti emisferi antropologici, il maschile e il femminile, ça va sans dire, e vanno a costituire le due facce di una naturale medaglia espressionista, che rimescola i ruoli e ne corregge costantemente le impressioni. Letterali e letterarie che esse siano.

Francesca Fiorletta
“E via così. All’infinito. O giù di lì.”