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"Vuoti a perdere": dodici racconti che riescono a restituire un senso

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Vuoti a perdere
di Pervinca Paccini


Autodafé edizioni, 2010
pp.125



L’impresa di descrivere la città e il malessere contemporaneo che vi alberga non è facile. Il rischio è quello di mettere in linea una serie di personaggi superficialmente abbozzati che dialogano sì, ma senza saper dire qualcosa di reale sul nostro mondo, qualcosa di bruciante e vero. I personaggi di Pervinca Paccini, invece, la realtà ce la sanno raccontare eccome. Premio delle Arti e della Cultura del Circolo della Stampa di Milano nel 2011, la raccolta di racconti Vuoti a perdere sa offrire una panoramica estremamente completa dell’universo metropolitano e delle sue sfaccettature attraverso una galleria di figure che danno vita a racconti quotidiani, comuni e che il lettore può riconoscere come molto - troppo - vicini. Una raccolta di questo tipo è un organismo particolare: si compone di tanti fili che si devono annodare in un tutto armonico e coerente, pur mantenendo la propria individualità e autonomia. Spesso si leggono raccolte di racconti che sono semplicemente messe uno dopo l’altro, legati da semplici elementi esteriori. In Vuoti a perdere c’è qualcosa che tiene unite le diverse narrazioni e che porta chi legge ad appassionarsi alle vicende quasi si trattasse di un’unica trama romanzesca. Non si creda che il testo manchi di varietà di spunti e di prospettive, perché la pluralità dei punti di vista è la cifra comune di questo caleidoscopio urbano (e anche umano). Ciò che lega la raccolte è, piuttosto, l’osservazione acuta della realtà che ci circonda, quell’attenzione alle dinamiche sfuggenti che si creano nell’ordinario e che, raccontate come fa l’autrice, acquistano un che di “straordinario”, considerato quanto poco siamo abituati a guardarci veramente intorno. 
Ecco, Vuoti a perdere è un libro che ti stana dal tuo angolino di mondo e ti convince a guardarti in giro e
a osservare meglio tutte quelle figure che ogni giorno ti sfiorano ma con le quali non vieni mai in contatto. Le storie raccontate tentano di vincere la diffidenza e di proporre un nuovo punto di vista che preveda una maggiore attenzione per l’altro da sé. La bravura dell’autrice emerge laddove, senza troppo dilungarsi, dà corpo e voce alla sofferenza di certe categorie di persone che vivono la città nel ruolo di outsiders, alla loro inadeguatezza e solitudine. La difficoltà di integrazione degli immigrati, ragazzi che scivolano nei disturbi alimentari, figli cresciuti tra mura di menzogne, giovani privati del futuro, coppie stanche che, alla fine, si ritrovano nel riconoscimento reciproco della propria sofferenza. Ciò che rende viva la raccolta è la capacità di mescolare dolce e amaro, ironia e malinconia, quei due eterni volti dell’esperienza sociale e personale che si vuole narrare. Alla base c’è un profondo amore per Milano, città in cui sono ambientati tutti i racconti eccetto uno che si svolge in Ecuador ma in cui, infondo, non si delinea un paesaggio umano così diverso dal nostro. Quel che rende pregevole la scrittura è la dosata e sapiente orchestrazione di ritmi narrativi e stili che si fanno espressione di sentimenti e punti di vista a volte inconciliabili e lontani, altre complementari. Alcuni dei racconti hanno un carattere che li avvicina ai testi teatrali per immediatezza e presa sul lettore, altri si costruiscono su un maggiore lirismo, ma si tratta sempre di modalità espressive finalizzate al senso ultimo che si intende trasmettere. Non si può dire che Vuoti a perdere sia un libro che vuole, banalmente, lasciare un messaggio perché in nessuno dei testi compaiono attitudine didascalica o contenuti anche solo vagamente moralistici. L’autrice non ha bisogno di consegnarci una lezione bella e pronta, basta la parola e la prosa che utilizza per farci riflettere e per spingere a porsi una domanda: quanti personaggi come questi abbiamo incontrato? A quanti di loro abbiamo rivolto un’occhiata fugace per poi dimenticarli? Probabilmente li abbiamo guardati senza vederli neanche. O forse abbiamo fuggito il loro sguardo perché la loro sofferenza rischiava di svelare, implicita e improvvisa, la nostra: Siamo vuoti a perdere. Quel che rimane di noi è il rumore che lasciamo nel mondo. Per questo non si indulge mai a facili consolazioni o lieti fine strappalacrime.
Ma, stranamente, quel che resta al lettore, alla fine del libro, è una sensazione diversa.. come se in questo vuoto circostante si fosse creato, per un attimo, uno spazio di unione e condivisione. Ecco, a dispetto del titolo, credo proprio si chiami “pienezza”.

Claudia Consoli