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Come e perché curarsi dai media

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Come difendersi dai media
di Enrico Cheli
La Lepre Edizioni, 2011

pp. 206
€ 16


Enrico Cheli ha scritto diversi libri sulla comunicazione ed è un esperto di tecniche di autoconsapevolezza e di sviluppo umano: personaggio quindi sicuramente titolato ad analizzare gli effetti indesiderati che i media possono avere "sulle persone, sulle loro idee, opinioni, emozioni e identità", come si propone appunto questa sua ultima pubblicazione.
Quando poi a questa competenza si aggiunge un linguaggio semplice, limpido e divulgativo, l'effetto è di quelli che meritano lo sguardo attento di una lettura utile ma piacevole.
Lo stile è apparentemente leggero ma in realtà molto documentato ed equilibrato, ricordando per molti aspetti quello del grande psicoanalista e sociologo Erich Fromm: a mio avviso uno dei punti di forza di un libro ben scritto e ben strutturato.
Una buona parte dell'opera è dedicata, come dice il titolo, alla difesa dai media o meglio alla difesa dagli "effetti indesiderati dei media", in particolare attraverso tecniche meditative yoga di autorilassamento o di autoconsapevolezza, con descrizione dettagliata di vari esercizi pratici.

Personalmente, pur immaginando che anche questa parte possa essere apprezzata da diversi lettori, ho trovato più interessante tutto il "contorno" ovvero la descrizione degli effetti psicosociali dei media su adulti e bambini o detto in altre parole ho apprezzato più la diagnosi che la cura.
L'autore precisa subito che non è un demonizzatore dei media.
Ne riconosce infatti l'importanza e la "centralità nella società contemporanea"
e l'effetto positivo dell'aver determinato di fatto un passaggio epocale dal provincialismo al cosmopolitismo: un numero sempre maggiore di persone ha iniziato a conoscere altre società, altre culture e religioni, "aprendosi all'idea che possano esistere molteplici punti di vista sulla realtà, con diritto di pari dignità".
Come si può intuire facilmente, gli effetti collaterali sono tuttavia numerosi, esattamente come succede con i farmaci ma, diversamente da questi, poco o per niente regolamentati.

Scendendo nel dettaglio, abbiamo tre tipi di effetti, coincidenti con tre capitoli del libro: effetti sulle emozioni, effetti sull'identità ed effetti cognitivi.
Gli effetti emozionali riflettono il cosiddetto fenomeno della neuroplasticità ovvero "la capacità dei circuiti nervosi di modificare la loro struttura e la loro funzione in risposta agli stimoli sensoriali dell'ambiente".
Fenomeno che nei media deve fare i conti con la esposizione eccessiva di comportamenti violenti (con conseguenti effetti di imitazione, paura o desensibilizzazione emozionale) o di ansia da information anxiety (ansia creata dalla eccessiva presenza di cattive notizie) o ancora da sensazioni di impotenza (tenendo ben in mente che lo stress è pericoloso solo quando sono precluse le "vie di fuga") : fenomeni sinteticamente definiti dall'autore come "intossicazione o indigestione emozionale" (il cibo cattivo fa male ma anche il cibo buono in grande quantità può essere nocivo alla nostra salute: occorre quindi imparare ad autoregolarsi, come in una sorta di dieta mediatica).

Gli effetti sull'identità riguardano il bisogno di esprimersi e di confrontarsi con gli altri.
Fanno parte del processo di coscienza e realizzazione di sé (non a caso riguardano diffusamente l'adolescenza, età nella quale è maggiormente avvertita questa esigenza) e sono considerati giustamente dall'autore "questioni della massima importanza".
Su questi effetti si è concentrata nel passato la critica al fenomeno della "pubblicità", perché quest'ultima, oltre a indurre forzatamente dei bisogni "pratici" (che potrebbero anche essere soddisfatti con l'acquisto di prodotti materiali), influisce anche e soprattutto sui bisogni che riguardano la sfera emozionale e istintuale dell'individuo, con l'esibizione di "modelli" irrealizzabili e quindi con la conseguente insoddisfazione di ciò che si è (identità personale) e di ciò che si rappresenta per gli altri (identità sociale).
Infine abbiamo gli effetti cognitivi che operano su due livelli.
Il primo riguarda la realizzazione di una obiettività difficile da realizzare- se non impossibile- anche oltre le buone intenzioni che si possono avere, dato che ognuno di noi vede indiscutibilmente in modo diverso la realtà. E anche dove questa obiettività sembra esserci, alcune esigenze per esempio giornalistiche, portano ad accentuare e a rilevare certi fenomeni piuttosto che altri, provocando effetti distorsivi della conoscenza.
L'altro livello riguarda la "capacità persuasiva" dei media, soprattutto in ambito politico o più in generale nella conservazione del potere.
Persuasione che può avvenire attraverso diversi modi. Uno per esempio è la "disfunzione narcotizzante" (rif. Lazarsfeld) cioè l'illusione che basti essere informati per avere una sufficiente consapevolezza democratica e mediatica, mentre in realtà non si incide minimamente né si partecipa attivamente alle decisioni politiche (con internet tutto questo sta cambiando, come dimostrano iniziative simili ad "Avaaz", anche queste tuttavia con effetti collaterali ancora da valutare).
Altro modo- questo un po' più conosciuto: è il famoso "pane et circenses" - è la "distrazione" ovvero l'utilizzo di programmi di divertimento o di intrattenimento che - come hanno rilevato Adorno e Horkheimer negli anni Quaranta- atrofizzano la consapevolezza delle persone e il loro contatto con la realtà.
Il vero pericolo qui non è la creazione di una cultura da schiavi o da Grande Fratello alla Orwell ma una cultura "cafonesca, ricca solo di sensazioni e di bambinate", libera apparentemente da preoccupazioni, come nel "Mondo nuovo" di Huxley (rif. Postman).

Nell'appendice il lettore può trovare altri interessanti dettagli sulla "capacità persuasiva" dei media, nonché un'affascinante evoluzione dello studio di questo concetto.
Da una prima fase (fino agli anni Trenta) in cui i consumatori erano visti sostanzialmente come indifesi e influenzabili, si passa a un concetto di influenza variabile in relazione alle "caratteristiche psicologiche e socioculturali dei riceventi, diverse da persona a persona" (con scarsa influenza diretta sul pensiero ma indirettamente incisiva, specie se mediata dagli opinion leaders).
Per arrivare infine alla teoria per cui i media influenzano in maniera lenta e cumulativa valori, comportamenti, atteggiamenti, convinzioni, schemi di comportamento e di pensiero.
Fase quest'ultima in cui conta più il martellamento continuo o anche l'assenza di comunicazione, visto che il non parlare di un argomento è considerato più efficace del parlarne male (teoria della agenda setting di Combs e Shaw: i media influenzano non tanto "cosa" pensare ma "su cosa" discutere).

Un processo di inculturamento nuovo o semplicemente diverso da ciò che succedeva in un società non mediatica ma di per sé ritenuto dall'autore non negativo anzi "indispensabile alla crescita sociale e intellettuale degli esseri umani" ma che, avverte, può essere mal condotto in maniera consapevole per "guidare" le opinioni delle masse ma anche involontariamente.
Tutti noi ci portiamo di fondo l'illusione di essere liberi, di avere le nostre idee, i nostri valori, le nostre credenze ma in realtà inevitabilmente sono il frutto di condizionamenti ricevuti, dell'inculturazione subita: si sostiene che non più del 5 o 10 per cento deriva dalla nostra esperienza personale, dovendo ricercare tutto il resto nei libri, nei giornali, nei cinema o anche nei genitori, amici, insegnanti, ecc.
Fondamentale per superare questi effetti collaterali è l'autoconsapevolezza:
"un passo fondamentale per conseguire una vera libertà di scelta è quello di affinare la nostra capacità percettiva".
Questa è ancor più realizzabile se si comprende che i bisogni a cui rispondono tutti i media sono in realtà dei bisogni preesistenti agli stessi e soddisfabili anche con mezzi alternativi.

Tali bisogni sono identificati dall'autore con:
- bisogno di conoscenza
- bisogno di intrattenimento e distrazione
- empatia
- bisogno di integrazione e interazione sociale
- bisogno di identità personale

L'ultimo capitolo è interamente dedicato ai bambini (in particolare in rapporto alla tv e ai videogiochi) non tanto perchè gli effetti sono diversi (in aggiunta c'è probabilmente il documentato disturbo da "deficit di attenzione associato a iperattività") ma tanto per la minore capacità di autocontrollo, consapevolezza e capacità di difesa.
Qui in effetti mi sembra ci sia qualche eccessiva preoccupazione su alcuni cartoni animati definiti pericolosi e diseducativi, i cui effetti a mio parere non sono dimostrabili, anche in considerazione, come avverte successivamente lo stesso Cheli, delle aggiuntive e contemporanee influenze degli altri "agenti educativi" (famiglia, scuola, ecc.) che possono modificare in maniera sostanziale anche gli effetti potenzialmente pericolosi dei media.
L'autore condanna inoltre l'eccessivo individualismo e l'eccessiva presenza di competizione (in particolare nei giochi elettronici) e ritiene opportuno sostituirli con un nuovo modello riassunto nel motto "eccellere, non competere". Eccellere nel senso di confrontarsi solo con se stessi "non andando a scapito con nessuno", alla ricerca di un equilibrio tra "il traguardo finale di una prestazione e il piacere di effettuarla".

Anche qui troviamo esercizi e consigli per la difesa di un effetto collaterale, la cui origine penso tuttavia sia da ricercare- più che nei media- nella stessa natura umana e quindi difficilmente modificabile.

Comunque la si pensi in merito, condivido e mi associo all'appello di Enrico Cheli affinché tutti- utilizzatori e soprattutto professionisti del settore- facciano maggiore attenzione a uno strumento (capillarmente diffuso eppure sconosciuto ai più) in grado di influenzare o modificare non soltanto i nostri comportamenti consumistici ma anche i nostri modi di pensare a breve termine o ancor più pericolosamente a lungo termine (più di quello che immaginiamo).
Solo in questo modo può esserci una più diffusa consapevolezza, base necessaria di una maggiore vera libertà.


Giuseppe Savarino