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"Le otto montagne" di Paolo Cognetti

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Le otto montagne
di Paolo Cognetti
Einaudi editore, novembre 2016

pp. 208 
€  18,50 (cartaceo)



Un mondo artico, un eterno inverno che incombeva sui pascoli estivi. Mia madre ne fu spaventata. Mio padre invece diceva che fu come scoprire un altro ordine di grandezza, arrivare dalle montagne degli uomini e ritrovarsi in quelle dei giganti. E naturalmente se ne innamorò a prima vista.

La montagna è luogo fisico ed ideale di questa storia, il romanzo di Paolo Cognetti appena pubblicato per Einaudi. Lo aspettavamo, noi lettori di Cognetti, con la trepidazione con cui aspettiamo ogni sua parola, che non sai mai dove ti porterà: in brevi squarci di vita di città, tra le strade affollate di New York, nella natura solitaria di un rifugio in montagna. Ogni volta lo stesso incantesimo: la scrittura attenta, evocativa, la parola misurata a raccontare frammenti di vita, il non detto che si insinua tra le pagine e ti resta dentro forse ancor più delle parole. È un narratore raffinato, che si muove agilmente fra generi e forme espressive differenti, tra racconti, romanzi, documentari, poesie, diari di viaggio, cambiando ogni volta abilmente registro. E in quest’ultimo libro, Le otto montagne, romanzo nella sua forma più tradizionale, c’è dentro lo scrittore che conosciamo ed amiamo, tutto ciò che ha scritto finora e allo stesso tempo è qualcosa di completamente nuovo e differente. Di intimo, personale, lirico, ma anche brutale, selvaggio, scarno. Come la montagna incantata che è custode e a sua volta protagonista di questa storia, di affetti familiari e di amicizia. Un romanzo di formazione e di amicizia maschile come non mi capitava di leggerne da un po’ e che, per quelle associazioni di idee che non sempre è possibile spiegare, mi ha subito rimandato ad un’altra storia di uomini e natura, l’intenso racconto di Nickolas Butler, Shotgun Lovesongs, pubblicato da Marsilio un paio di anni fa, seppure i due romanzi siano molto diversi fra loro. Sono state alcune atmosfere a farmi pensare ad un qualche tipo di vicinanza tra le due storie, la parola che abilmente evoca luoghi e stati d’animo facendosi lirica, e soprattutto il racconto di quel rapporto che qualche volta si instaura tra uomini, scarno di parole, essenziale, forte, quasi primordiale. Un’amicizia così può nascere solo da ragazzini e se si è fortunati sarà capace di superare la prova del tempo, della vita che si mette in mezzo, della distanza, delle incomprensioni.
È quella che lega Pietro e Bruno, un ragazzino di città, solitario e pallido, e un altro costretto a crescere in fretta in un piccolo paesino ai piedi del Monte Rosa dove la vita è scandita dal duro lavoro e dai ritmi dettati dalla natura. Diversi, eppure anime affini che si riconoscono e, senza bisogno di troppe parole, diventeranno amici. Perché le parole non contano, come non conta la distanza che li separa: ogni estate, Pietro lascia la città per fare ritorno insieme alla famiglia tra quelle montagne e, ogni volta, Bruno è lì ad aspettarlo, come se non fosse passato che un giorno. Quello che dalla pagina prende vita è il racconto della prima estate di scoperta ed avventure, ma anche di tutte quelle che sono venute dopo, delle distanze, delle incomprensioni, delle difficoltà della vita, di perdita e sensi di colpa, parole che mancano ed altre che sembrano superflue. Di due ragazzini che in qualche modo cercano di diventare adulti, sbagliando, cadendo, riprovando; ma anche di due famiglie, diverse ma entrambe imperfette, di padri, soprattutto, fragili o brutali, di distanze e sensi di colpa che all’improvviso pesano come macigni e sembrano impossibili da superare, di donne silenziose e risolute in un mondo di uomini.

E la montagna, naturalmente. Quella che aveva fatto innamorare i genitori di Pietro, tanti anni prima, poi abbandonata in fretta per la città, nuove opportunità da cercare, un figlio da crescere, vecchi segreti da custodire, ma una malinconia nel cuore da cui sembra impossibile sfuggire; finché una montagna diversa, un paesino minuscolo a qualche ora di viaggio da Milano, rivela a Pietro un mondo completamente nuovo e uno squarcio sul passato dei suoi genitori, che in quella casa in affitto per l’estate riscoprono ritmi e desideri mai davvero dimenticati. A Grana, il paese ai piedi del Monte Rosa, il ragazzino osserva i suoi genitori, uniti eppure così differenti, scopre frammenti della loro storia e, soprattutto, impara ad amare a sua volta la montagna. Le gambe, che giorno dopo giorno scoprono l’andatura giusta, il cuore che trova il proprio ritmo, la fatica, le vesciche, sentieri da seguire ed altri da inventare, il mal di montagna, perfino, con cui imparare a fare i conti. Lì, nella natura, Pietro segue ogni giorno suo padre, da lui apprende i segreti di quella vita e scopre di amarla, struggendosi nei lunghi mesi di lontananza, in città:

Così adesso conoscevo anch’io la nostalgia della montagna, il male da cui per anni l’avevo visto afflitto senza capire. […]
Finché notavo un nuovo taglio di luce sul balcone, un germoglio nell’erba stenta tra le corsie di traffico, la primavera tornava perfino a Milano e la nostalgia si trasformava in attesa che arrivasse il momento di tornare su.
Di quella vita in città conosciamo poco o nulla, perché quello che conta, davvero, sono i mesi in montagna, dove ritrovare Bruno, le lunghe escursioni, il torrente, l’arrampicata, il ghiacciaio che sembra impossibile conquistare, l’avventura. È, nel racconto di Cognetti, una natura bellissima e crudele, che qualche volta spaventa, evocata in passi di estrema tensione narrativa, in una storia pervasa di una tragicità che è impossibile ignorare del tutto.

[…] sotto di noi, da una parte, la pendenza della montagna aumentava, e il ghiacciaio si spaccava in una ripida seraccata; oltre quel tormento di blocchi rotti, crollati, ammassati, il rifugio da cui eravamo partiti veniva inghiottito dalla nebbia. Allora mi sembrò che non saremmo più tornati indietro […].
Una realtà evocata con estrema attenzione al dettaglio di chi conosce perfettamente quella bellezza e cerca il modo di ricrearla sulla pagina, nelle descrizioni quasi liriche di un paesaggio che si rivela passo dopo passo, da conquistare. Ma è anche racconto di un mondo crudele, rassegnato di fronte al declino:

Non era solo assenza di decoro: c’era un certo disprezzo per le cose, un certo gusto nel maltrattarle e lasciarle andare in malora, che stavo imparando a riconoscere anche a Grana. Era come se quei posti avessero il destino segnato e la manutenzione non fosse che una fatica inutile.
Di case abbandonate che due ragazzini esplorano per gioco, ma che qualche anno più tardi con la consapevolezza degli adulti rivelano il fallimento di un mondo che si sta perdendo per sempre, di un modo di vivere la montagna che va scomparendo. E che qualcuno non è pronto a lasciare andare, testardamente convinto che si possa salvare; o da ritrovare, magari a migliaia di chilometri di distanza, differente eppure in qualche modo identico.
La malinconia è tra i sentimenti che caratterizzano le pagine: lo struggimento dei genitori di Pietro nei primi anni a Milano, lontani dalle loro amate montagne, nonostante la consapevolezza di una vita che lassù non poteva esistere; quella del ragazzino in attesa di ritrovare l’amico durante i mesi estivi e quel luogo che a sua volta ha imparato ad amare; la malinconia nel ricordo di chi non c’è più, del tempo insieme, delle distanze; di un mondo che lentamente ma inesorabilmente va scomparendo, abbandonato a sé stesso.

Può anche apparirti del tutto diverso, da adulto, un posto che amavi da ragazzino, e rivelarsi una delusione; oppure può ricordarti quello che non sei più e metterti addosso una gran tristezza.
Eppure, ancora una volta, il racconto sembra attraversato da dualismi, e contraltare di questo sentimento si avverte, fortissima, anche una speranza ostinata. Quella di chi non vuole arrendersi nonostante le difficoltà, di chi cerca il proprio posto nel mondo e la vita che più gli appartiene, quella che spinge oltre i propri limiti, alla scoperta della bellezza, alla conquista della cima. È storia di “ragazzi selvaggi” e solitari, parchi di parole e dai sentimenti assoluti, di donne attente e premurose e matrimoni imperfetti, incomprensioni e solitudini. La solitudine è appunto uno dei temi chiave di questa storia: un tratto del carattere che rende difficile aprirsi agli altri, esprimere a parole i propri sentimenti, ma anche qualcosa da cercare, una condizione ideale in cui vivere, per alcuni difficile da accettare. Manca il senso di comunità, di appartenenza, quello spirito gregario con cui molte volte siamo portati ad immaginare gli uomini e i rapporti che costruiscono ma che qui, nel romanzo di Cognetti, diventano invece spiriti solitari, silenziosi, un po’ selvaggi, capaci di affetti profondi che non si nutrono di parole e quotidianità ma forse di un comune sentire. E in quella minuscola realtà di Grana la vita è scandita dal duro lavoro, dalla rassegnata consapevolezza di un mondo che sembra già far parte del passato, in cui non sembra esserci spazio per sentimentalismi e nemmeno per lo spirito di comunità.

Ed è anche intensa riflessione intorno al tema della paternità: di padri di sangue o d’elezione, quasi sempre fragili, incapaci di esserlo fino in fondo, imperfetti e per questo umani. È Pietro, osservatore attento, a cogliere piccoli segnali, frammenti di conversazione, sguardi e gesti nella sua famiglia e in quella di Bruno, e guidare il lettore nella storia, attraverso la narrazione diretta, filtrata dal tempo che ha messo la giusta distanza per comprendere il passato, e forse accettarlo. Un romanzo che è un atto d’amore, verso la montagna in primo luogo, come la intende Cognetti, ma anche il bellissimo ritratto di legami che sono per sempre e di uomini pieni di mancanze e debolezze ma, si diceva, proprio per questo reali, vivi, come lo sono sentimenti e rapporti, come lo è la vita stessa: imperfetta, strana, sorprendente.

Attraverso una lingua essenziale eppure straordinariamente evocativa ed intensa, Cognetti costruisce un romanzo breve che in molti hanno già definito un classico, in cui senza dubbio si avverte l’eco dei maestri che l’hanno formato, delle innumerevoli letture, dell’esperienza in montagna.
Forse chiederemo proprio stasera all’autore – in occasione della prima presentazione ufficiale del libro, a Milano – di parlarci di quei maestri scrittori che lo hanno accompagnato fino a qui, di quella vita che ne ha modellato la scrittura, il modo di sentire e tradurre in parole da ordinare sulla pagina; gli chiederemo delle sue di otto montagne, seguendo il racconto di un’antica storia nepalese, e di questa di storia che si portava dentro da sempre. Del lavoro scrupoloso sulla parola, che a volte penso solo gli autori di short story sanno fare davvero – e fa un poco rabbia pensare invece a come il genere sia stato a lungo bistrattato, subordinato al romanzo – , della pazienza, della costruzione di quello che stavolta è un romanzo a tutti gli effetti e a dispetto delle mode, delle influenze del mercato, non cede ad inutili lungaggini, descrizioni – di vicende, di ambienti, di sentimenti – eccessivamente minuziose, dialoghi serrati, colpi di scena; che non aspira a comprendere e raccontare la vita intera, ma lascia qualcosa al lettore, non svela fino in fondo, non offre semplicistiche soluzioni e forse nemmeno un perfetto lieto fine.
Non eroi ideali e nemmeno antieroi affascinanti nella loro negatività: solo uomini, che provano a diventare adulti, solo vite. Racchiuse lì, ai piedi della montagna.

Debora Lambruschini