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"Il banchiere anarchico" di Pessoa

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Il banchiere anarchico
di Fernando Pessoa
Nova Delphi, 2010
I ed. 1922

Associare in automatico Fernando Pessoa al Libro dell'inquietudine non rende giustizia allo scrittore portoghese. Quell'opera è certo un capolavoro, ma non è il solo partorito da una delle più geniali penne iberiche. Basti leggere Il banchiere anarchico per averne dimostrazione. Se il protagonista del suo più celebre romanzo 'sdormiva' e, per dirla con Tabucchi,
«frequentava quello spazio di iper-coscienza o di coscienza libera che precede il sonno»,
il banchiere del Banchiere anarchico è al contrario un vigile e spietato strumento di calcolo. A tener banco sono qui i suoi rigorosi flussi di sillogismi e paralogismi che investono il lettore costringendolo a labirinti logici in cui, apparentemente, ogni passaggio consegue necessariamente dal precedente. È persino discutibile usare il termine 'narrativa', che pur ingloba tutto nella sua genericità e vastità, per definire quest'opera. Ricorda semmai più da vicino alcuni dialoghi filosofici.
Tutto si regge su una lunga conversazione tra due amici: le uniche azioni, che garantiscono una dimensione temporale altrimenti invisibile, sono costituite dall'atto di scuotere la cenere dal sigaro che il banchiere avidamente fuma. Ed è proprio quest'ultimo a dare l'avvio alla conversazione, sostenendo di essere anarchico. L'amico gli fa notare che un noto speculatore, un uomo elegante e abilissimo conversatore, può essere anarchico solo se si dà all'aggettivo un significato diverso da quello che gli attribuiamo solitamente. Seguono una serie di argomentazioni tese a dimostrare che la fede anarchica del banchiere è proprio la stessa di quella sbandierata dagli operai e dalle classi sociali più povere. Naturalmente non è possibile qui riprendere tali argomentazioni.
È interessante però puntare l'attenzione su un paio di aspetti a mio parere particolarmente importanti. Innanzitutto non c'è, nel libro, una proposta fattiva di 'anarchismo'. Questo è evidente, dato che man mano che si procede viene svuotato l'ideale anarchico e corrotto fino al punto di renderlo possibile solo alla condizione di essere sommamente egoisti. Non va colto, altrettanto ovviamente, un messaggio che tenda ad elogiare l'egoismo. A ben vedere, e qui sta il punto, il nucleo del libro non è da cercarsi a livello 'ideologico'. Certo, non è assente un preciso contenuto da questo punto di vista. È fin troppo evidente che nell'apologia conclusiva che il banchiere fa dell'egoismo si può recepire – e contrario – un monito a tenere lontana da sé una tale perversa, ancorché seducente, forma mentis.

Tuttavia, la vera magia è consumata a livello formale e logico. A livello 'sofistico', potremmo dire. È l'architettura dell'opera a stupire. Essa si regge su una catena di presupposti, ciascuno dei quali è appena più estraneo alla verità rispetto a quello che lo precede. A leggere Il banchiere tutto d'un fiato si ha l'impressione che ogni passaggio sia, evidentemente, logico. Solo a un'attenta rilettura si colgono le variazioni minime che consentono, sommandole una ad una, di notare il moto di deriva delle deduzioni. Serve del tempo e della buona volontà per accorgersi insomma che quel che lega l'anarchia al suo esatto opposto non è una linea retta, e che ad ogni curva ci sono vizi logici che inficiano l'intero percorso.
Siamo ben al di là delle condanne e dei precetti morali, l'anarchia è soprattutto – ma non soltanto – un pretesto per mettere in guardia da chi è dotato di mirabolanti capacità linguistiche e di nessun terreno morale che dovrebbe costituire la base su cui innestare ogni ragionamento.
Cicerone ammoniva: «Rem tenes, verba sequentur». Qui abbiamo l'esatto opposto, della “rem” quasi ci si dimentica, assorti dalle girandole logiche che sole sostanziano questo geniale libriccino.

Marco Giorgerini