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A single man: solitudine e rivelazione della bellezza

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Un uomo solo
di Cristopher Isherwood

(tit. originale A single man, I ed. 1964)

2009, Adelphi
148 pp., 16 euro

Raramente mi è capitato di leggere libri in cui la bellezza della vita si mostri in modo così aperto e prorompente. E parlo di una bellezza anti-retorica, corporea, resa ancora più viva e luminescente da un passato doloroso. Un uomo solo (Christopher Isherwood, 1964) è etichettato come uno dei più bei romanzi della letteratura gay e sul dialogo con la morte, ma direi che è molto di più: è, appunto, un romanzo sulla vita, che è percezione sensoriale, dunque è bellezza.

Siamo nel 1962, in California. In piena guerra fredda e nella trionfante realizzazione dell'ideale americano. George Falconer ha ormai superato abbondantemente i cinquanta, è un inglese trapiantato negli States, insegna in un college e - come direbbe lui stesso - appartiene a una minoranza scomoda, silenziosamente disconfermata quando non apertamente condannata e perseguitata: è omosessuale. Ma, ripeto, credo che la vera radice vada colta al di là delle etichette: George è prima di tutto un uomo, un uomo che ha amato e perduto; e che, a vicini e conoscenti, ha raccontato - mentendo - che il suo "vecchio amico" Jim è tornato da sua madre in Ohio, quando proprio in Ohio è stato ucciso da un camion in corsa.
Ma il tuo libro si sbaglia, signora Strunk, dice George, quando ti racconta che Jim è il sostituto che mi sarei trovato per un figlio vero, un fratellino vero, un marito vero, una moglie vera. Jim non sostituiva niente. E non esiste sostituto per Jim, se me lo permettete, da nessuna parte.
A single man, dunque: un uomo solo. Ma occorre definire questa solitudine. Isherwood non intende raccontarci l'elaborazione di un lutto. Il dolore è qualcosa di fisico ma latente, e la sofferenza della perdita emerge soltanto come spasmo inaspettato, o dolce reminiscenza di un'altra vita. George ha ormai metabolizzato la scomparsa di Jim: e la sua solitudine è più complessa, perché è solitudine di chi ha perso un amore insostituibile ma, anche, sa di appartenere a un gruppo di innominabili.
L'individuo che stiamo osservando lotterà incessantemente fino al crollo. Non per eroismo. Non sa immaginarsi alternativa.
Fissandosi sempre di più nello specchio, vede parecchi volti all'interno del suo - il volto del bambino, del ragazzo, del giovanotto, dell'un-po'-meno giovanotto - ancora tutti presenti, conservati come fossili sotto strati sovrapposti e, come fossili, morti. Il loro messaggio a questa viva creatura morente è: Guardaci - siamo morti - che c'è da aver paura?
(...) Docilmente, si lava, si rade, si pettina; perché accetta le proprie responsabilità verso gli altri. Si sente quasi felice di avere il suo posto tra loro. Sa ciò che ci si aspetta da lui.
George, per sopravvivere, deve recitare: ama e odia questo compito. L'odio si coagula, si rivolge alla stupidità del sogno americano, si materializza nella ridacchiante fantasia di uno Zio George a capo di un'associazione criminale. Ma George è solo, e solo in mezzo a tanti, perché sa di sentire in modo diverso. Accoglie la vita e le sensazioni che da quella arrivano, a flutti, come doni: ne è deliziato. Sarei tentata di definirlo un epicureo, ma scelgo di fuggire le etichette. Ogni incontro è come uno scatto fotografico, un tassello aggiunto a un mosaico in divenire, con la sua specifica conformazione, con il suo volume, il suo colore, la sua consistenza. Isherwood sembra aver raggiunto a pieno titolo il traguardo che ogni scrittore vorrebbe anche soltanto vedere nel proprio orizzonte: fare poesia senza fare retorica.  Un esempio:
E adesso un'ora, forse, è passata. E sono entrambi ubriachi; Kenny abbastanza, George parecchio. Ma George è ubriaco in un modo piacevole, come raramente gli succede. Prova a spiegarsi che genere di sbronza sia. Ebbene - per dirla rozzamente - è come Platone; è un Dialogo. Un dialogo tra due persone. Sì, ma non un dialogo platonico nel senso dello spaccare un capello in quattro, delle contorsioni sulla parola da «un punto per me»; non una gara di sopraffazione falsamente modesta; non una discussione su qualche asfissiante tema dato. Puoi parlare di tutto e cambiare argomento quanto ti pare e piace. In effetti, ciò che realmente importa non è quello di cui parli, ma il fatto di essere uniti da questa particolare relazione. (...) Tu e il tuo interlocutore dovete essere in qualche modo opposti. Perché? Perché dovreste essere figure simboliche — come, in questo caso, Giovinezza e Vecchiaia. Perché dovreste essere simbolici? Perché il dialogo è per sua natura impersonale. È un incontro simbolico. Non coinvolge personalmente le parti. Ecco il motivo per cui, in un dialogo, puoi dire assolutamente qualunque cosa. Anche la più intima confidenza, il più mortale segreto, risultano obiettivamente semplici metafore o illustrazioni, che non potrebbero mai venire usate contro di te.
Questa predisposizione alla vita, che si divarica nell'arco di una lunga, significativa giornata (non vi dico di più), si realizza magistralmente nella resa linguistica: l'aggettivazione è orchestrata in modo ineccepibile, corposo; le figure retoriche, non eccessive, sono dosate con criterio, inserite in punti fondamentali, punti di luce e carnalità nello scorrere degli eventi. Il lettore, insomma, finisce col deliziarsi con George e di George, anche quando si parla delle sue scoregge. Perché sul dolore, la fitta che ti coglie nel ricordo, trionfa il vivere-nonostante-tutto, e anche quello conserva, nell'occhio di chi guarda e nella lingua di chi racconta, una bellezza sconvolgente.

Ho pensato, durante la lettura, a una delle mie canzoni preferite, dell'ex voce dei Genesis, Peter Gabriel (Up, 2002). Titolo: I Grieve, letteralmente 'io sono in lutto'. La prima parte della canzone esprime, nel più delicato progressive britannico, in sordina, la pastoia del dolore: lo sgomento perché tutto, carne e ossa, sembra uguale a prima; e lo shock per la presenza di una pagina ancora bianca, vuota (un futuro ancora da scrivere). Ma il ritmo della canzone cambia, sembrerebbe quasi correre con George verso l'oceano: perché la vita continua, e colui soffre viene ritrascinato in essa, volente o nolente:
Life carries on in the people I meet
In everyone that's out on the street
In all the dogs and cats
In the flies and rats
In the rot and the rust
In the ashes and the dust
Life carries on and on and on and on
Life carries on and on and on

It's just the car that we ride in
A home we reside in
The face that we hide in
The way we are tied in
And life carries on and on and on and on
Life carries on and on and on
La vita continua nella gente che incontro / in tutti quelli che sono fuori, per strada / in tutti i cani e gatti / nelle zanzare e nei topi / nella putrefazione ne nella ruffine / nel fumo e nella polvere / la vita va avanti e avanti e avanti e avanti / la vita va avanti e avanti e avanti // E' solo l'auto in cui corriamo / una casa in cui viviamo / la faccia dentro cui ci nascondiamo / il modo in cui siamo collegati / e la vita va avanti e avanti e avanti e avanti / la vita va avanti e avanti e avanti

Quanto il caso importi in tutto questo, e quanta bellezza mostri, il caso, nel suo più cieco realizzarsi, lo rivelerà la fine del romanzo.

Qualche parola, infine, sulla trasposizione cinematografica diretta dallo stilista Tom Ford (2009) con la magistrale interpretazione di Colin Firth e Julianne Moore (premiato, il primo alla 66a Mostra d'arte cinematografica di Venezia). Il regista-stilista ha esasperato la componente del dolore, facendo di George un personaggio più tragico (è un fenomeno, questo, che si riscontra in molte riduzioni cinematografiche), e riservando la dimensione della umanità comica e autoironica del personaggio a pochi istanti. La preoccupazione fondamentale di Ford sembra essere stata, tuttavia, la resa visiva e sonora della sensorialità: che si traduce in una desaturazione dei colori, che riesplodono vivi, violenti e aranciati nei momenti in cui, a George, la bellezza si rivela.

L. Ingallinella