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Quando l’erudizione si fa gioco…

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…il gioco, se ben congegnato, diventa un capolavoro. È questo il caso de Il nome della rosa, prima prova narrativa di Umberto Eco, pubblicata nel 1980 e immediato successo presso critica e pubblico. Si tratta di un romanzo impossibile da classificare, tra il giallo e il romanzo storico, intessuto di digressioni erudite e momenti di indiscutibile effetto narrativo. Eco ammicca ai più svariati generi letterari, e piuttosto scopertamente, con la disinvoltura tipica di chi conosce la macchina-romanzo e i suoi ingranaggi nascosti: e finisce col creare (“scrivere un romanzo è una faccenda cosmologica, come quella raccontata dal Genesi”) un universo dominato da leggi invisibili, architettonicamente inoppugnabili.
La complessità del gioco narrativo si scopre già dal prologo, che cita un fortunato espediente narrativo (il ritrovamento di uno “scartafaccio”) ma amplifica il tutto in un articolato sistema di scatole cinesi, per cui il libro che il lettore ha tra le mani risulta essere la traduzione della traduzione francese, non si sa quanto fedele, di un manoscritto autografo del monaco Adso da Melk.
Adso, che ormai vecchio sceglie di affidare ai posteri le memorie dei fatti straordinari vissuti in gioventù, è come un ponte di collegamento tra il lettore e il grande universo medievale, rappresentato dall’abbazia benedettina attorno alla quale ruota l’intero romanzo, scandito in sette giorni e secondo la scansione liturgica delle ore.
All’abbazia fanno capo le due linee principali individuabili nel romanzo: la serie di misteriosi omicidi che colpisce, uno dopo l’altro, i monaci; e l’incontro tra francescani spirituali – sostenitori della povertà di Cristo – e i teologi antagonisti della curia papale, che dovrebbe finalmente sanare gli aspri conflitti in atto all’interno della Chiesa. Le due linee si intrecciano nella figura del francescano Guglielmo da Baskerville, dotto delegato della corte imperiale incaricato dall’abate di far chiarezza sugli omicidi. Ecco un altro scoperto ammiccamento di Eco: si ripropone la tipica coppia da romanzo giallo, il geniale e orgoglioso investigatore (o qui, meglio, ex-inquisitore!) Guglielmo/Holmes, e il gregario con funzione di voce narrante Adso/Watson. Ma il gioco di riferimenti intertestuali non finisce qui: la trama si infittisce in un’architettura perfetta di citazioni di autori medievali, mistici e filosofi, ma anche di contemporanei (Wittengstein e, perché no, un po’ di semiologia). Il romanzo risulta essere quindi uno splendido ibrido, in cui le voci si mescolano e si rispondono, e diventa sempre più difficile distinguere quanto ci sia di medievale e quanto, invece, di contemporaneo. E tutto questo si conchiude, come la gemma centrale di un reliquiario, nella biblioteca, centro pulsante dell’abbazia e custode dei suoi misteri. “Ora mi avvedevo che non di rado i libri parlano di libri, ovvero è come se si parlassero fra loro. Alla luce di questa riflessione, la biblioteca mi parve ancora più inquietante. Era dunque il luogo di un lungo e secolare sussurro, di un dialogo impercettibile tra pergamena e pergamena, una cosa viva, un ricettacolo di potenze non dominabili da una mente umana, tesoro di segreti emanati da tante menti, e sopravvissuti alla morte di coloro che li avevano prodotti, o se ne erano fatti tramite.”
La biblioteca è la grande metafora del romanzo, la sua fonte ultima di poesia e significato: un vero microcosmo, simulacro del mondo e, al contempo, segreto che va protetto o decifrato, svelato al mondo o distrutto nel fuoco. “Il bene di un libro sta nell'essere letto. Un libro è fatto di segni che parlano di altri segni, i quali a loro volta parlano delle cose. Senza un occhio che lo legga, un libro reca segni che non producono concetti, e quindi è muto. Questa biblioteca è nata forse per salvare i libri che contiene, ma ora vive per seppellirli. Per questo è diventata fomite di empietà.”
Si pone dunque il grande problema, tutto medievale, del sapere e della brama di sapere, ma soprattutto quello, vecchio quanto l’uomo, dell’urgenza di decifrare il mondo, cogliere una chiave in più, forse quella giusta, per schiudere il mistero. Eco dà una risposta a questo problema, ma è una risposta negativa: il mistero si svela ma la realtà è destinata a soccombere, sotto il peso degli estremismi e della volontà distruttiva, sotto il peso di un caos senza nome né causa che distrugge e tacita l’intelligenza nella polvere. Una risposta a cui Adso, ormai in fin di vita, aggiunge – ed è questo explicit che dà senso all’intero romanzo, e al suo titolo – lo splendido esametro di Bernardo Morliacense: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. Nulla possediamo del mondo se non nomi nudi, puri alla radice: e, cioè, la facoltà di raccontare; di eternare nella scrittura, che è incisione di segni, un mondo che è pura illusione.