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Una storia di formazione che celebra la vita e l’incontro salvifico con l’altro: “Salvarsi la vita” di Pierangelo Consoli.

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Salvarsi la vita
di Pierangelo Consoli
Nuova Editrice Berti, ottobre 2024

pp. 125
€ 18,00 (cartaceo)

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«Alberta conosceva l’ineluttabilità del suo destino perché a suo padre era toccato lo stesso, e forse anche a suo nonno prima di lui. Ci sono cose che uno ha dentro e non c’è niente da fare, spiegava, e io capivo a stento. Avevo dodici anni e quella che era ancora mia madre mi raccontava che dubitava di tutto ma non della sfortuna». (p. 7)

Si avvia con il ricordo della madre Alberta, morta suicida prematuramente, la storia di Arturo, il giovane protagonista di Salvarsi la vita, ultimo romanzo di formazione del promettente scrittore Pierangelo Consoli. Vulnerabile e introverso, orfano di madre e con un rapporto complicato e irrisolto con il padre – definito con forte distacco emotivo “L’Ammiraglio” - Arturo trascorre la sua esistenza da ventenne alla ricerca di un equilibrio difficile da realizzare e di motivazioni valide per restare “aggrappato” alla vita, portandosi sulle spalle il peso del suo disagio familiare e personale; il peso di un’infanzia e di un’adolescenza mai vissute pienamente. Cercando di “salvarsi” da una vita che non gli appartiene e che non lo soddisfa, Arturo trova rifugio e conforto nella lettura e nella scrittura, che gli consentono di trascorrere le sue giornate “anestetizzandosi” per sfuggire temporaneamente al ricordo della malattia della madre, all’assenza emotiva del padre e a quella condizione di solitudine che sembra segnare le sue giornate, almeno prima dell’incontro con Renato e Manuela, i suoi futuri compagni di avventure e alleati in quel percorso che rappresenterà per lui la rinascita.

«Leggere era un modo per allontanarmi da tutto e mi assorbiva così tanto che non mi accorgevo del tempo che passava né di cosa mi succedeva intorno. […]. Per scrivere invece avevo bisogno di essere presente. Avevo bisogno di silenzio e solitudine. Scrivevo con ogni particella del mio corpo, ed era sempre molto faticoso». (p. 18)
«Non credo abbia mai accettato la sua famiglia adottiva, da cui era infatti scappata appena possibile con un figlio in grembo per sposarsi con un marinaio. E credo che di suo marito, mio padre, in fondo lei amasse solo due cose: che l’avesse portata via per sempre dalla sua famiglia, e che periodicamente fosse costretto ad abbandonare la nostra». (p. 38)

In questa prospettiva, la scelta della Facoltà di Lettere e Filosofia, sebbene Arturo fosse ben consapevole del fatto che, per la sua natura incerta e inconcludente, non avrebbe mai terminato l’università, aveva per lui rappresentato inizialmente un’illusione di Salvezza: 

«Volevo fare lo scrittore ma non osavo confessarlo nemmeno a me stesso e immaginavo che Lettere fosse la facoltà giusta: lì avrei letto libri capaci di cambiarmi la vita e magari avrei pure frequentato seminari di poesia con altri aspiranti scrittori come me. Invece avevo scoperto che tutto era fermo e nessuno metteva mai niente in discussione». (pp. 21-22)

L’Ammiraglio pagava la retta controvoglia, considerando incomprensibili le scelte del figlio, che avrebbe preferito vedere  arruolato in marina: «per lui ero cocciuto come Alberta» (p. 21) che, in vita, aveva trovato il suo rifugio nell’arte. La sua storia, forse un po’come quella di Arturo, era stata una storia di abbandono: nata e cresciuta in Germania, Alberta era stata abbandonata dalla famiglia originaria e adottata da una coppia italiana all’età di quattordici anni. Uno sradicamento che, in qualche modo, aveva dovuto generare nella sua anima quelle “crepe” che avrebbero influenzato la sua vita  da adulta e le sue inclinazioni relazionali:

 

Arturo aveva fatto sue quelle crepe, cercando di accudire la madre finché era in vita e dedicando tutte le sue cure alla persona dalla quale avrebbe dovuto riceverle lui stesso: «Avevo assecondato ogni sua follia. Io l’accudivo, le permettevo di non essere presente, di pretendere tutta la mia attenzione» (p. 40). Aveva fatto tutto il possibile; ma il “fantasma” di Alberta continuava a rivivere nel  buio di quelle crepe, nel sentimento di abbandono che Arturo aveva conosciuto sin dall’infanzia e in quella ricerca, seppur inconscia, di una figura in grado di restituirgli le cure che, in fondo, lui non aveva mai realmente potuto ricevere. Da cosa partire, dunque, per ricostruirsi se non proprio da quella parola - “cura” - intorno alla quale ruota ogni forma di affetto e benevolenza? Fondamentale sarà, a questo proposito, l’incontro con Renato e Manuela, perché se è vero che ognuno può trovare solo dentro di sé la motivazione per reagire e  ricominciare, è anche vero che, difficilmente, ci si salva da soli.

 

Renato era un ex compagno di scuola di Arturo che, un giorno come tanti, il destino aveva voluto rimettere sulla sua strada:

«Teneva sulla spalla, come un fucile, un basso elettrico senza custodia, verde scuro, con la vernice scrostata lungo i bordi. Suonava in un gruppo, non erano molto bravi e lui era il peggiore. Si chiamava Renato. Aveva gli occhi neri e allungati, con le sclere arrossate. Il torace largo come una razza oscurava il sole del tardo pomeriggio mentre se ne stava in piedi davanti a me, toccandosi la cresta di capelli unti di brillantina. Mi sentivo schiacciato, lì dentro il cono della sua ombra, soggiogato dalla timidezza. Adesso mi tira il basso in testa, pensai, ma non mi mossi.» (pp. 9-10)

Il timore suscitato dalla prima “epifania” di Renato, lascerà presto spazio a un sentimento di vicinanza e appartenenza che si trasformerà, con il tempo, in un legame di reciproca protezione, nutrito da una  particolare forma di attrazione da parte di Arturo.

 

Anche l’incontro con Manuela, che avviene nel bar del padre, susciterà in lui una nuova, e differente, attrazione:

«Più che un bar, era una cripta in cui finivano risucchiati gli sfaccendati di San Lorenzo. L’unica cosa bella, là dentro, era la figlia di Altomare. Si chiamava Manuela, era più giovane di me di un anno e aveva i capelli neri e corti. Quella mattina, mentre le immagini di mio padre, della Tunisia e di Alberta mi azzannavano lo stomaco, lei stava leggendo un Dylan Dog seduta sul bancone, le gambe fasciate di nylon verde e le Converse ai piedi. Mi sedetti a un tavolino vicino al paravento, presi il quaderno, ma non scrissi una parola.» (pp. 42-43)

Manuela provoca immediatamente in Arturo un senso di smarrimento - «mi sentivo  come se stessi camminando all’indietro verso un burrone» (p. 43) riuscendo ad arrivare dritta al suo cuore perché, empaticamente, avverte le sue ferite e i suoi bisogni: «So che ti chiami Arturo, che non parli mai, che hai gli occhi incasinati. E neanche tu sei tanto felice» (p. 44).

 

Da questo momento, molto velocemente, le vite e le storie dei tre ragazzi si intrecceranno e, fra di loro, si svilupperà un legame fatto di condivisione quotidiana e sostegno reciproco; di presenza, affetto, cura e protezione. Un legame difficile da incanalare nella definizione di “amicizia” o “amore”, ma molto vicino alla definizione di “famiglia”, quella famiglia che, probabilmente, era mancata a ognuno di loro nella costruzione dei bisogni di vita basilari: «Io ero innamorato di entrambi e finalmente, con loro mi sentivo parte di qualcosa che assomigliava a una famiglia.» (p. 86)

«Non ero più triste, non con loro, e non pensavo troppo a mia madre. Passavamo i pomeriggi al parco distesi sull’erba a fumare e a raccontare la vita che avremmo voluto fare se solo ce ne fossimo andati via da quel cesso di città.» (p. 95)

Con Manuela e Renato accanto, le giornate di Arturo trascorrono con una  forza e leggerezza prima sconosciute; con loro, riaffiora la sua capacità di sognare e desiderare, e una nuova luce sembra illuminare e risanare le crepe dell’anima.

Ed è insieme, e grazie a loro, che Arturo riesce a comprendere che non è mai troppo tardi per Salvarsi la vita, amare ed essere amato.

«Mi sentii come risarcito per tutto quel tempo speso nella tempestosa confusione dello stare al mondo, grato di esserne uscito vivo.» (p. 107) 

 

Federica Malara