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La guerra civile, le sconfitte, il lutto di un popolo: come commuovono "I girasoli ciechi" di Alberto Méndez

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I girasoli ciechi
di Alberto Méndez
Sellerio editore, marzo 2025

Traduzione di Bruno Arpaia

pp. 280
€ 15 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)

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Quattro sconfitte e la guerra civile spagnola.
Dentro questo perimetro prende forma I girasoli ciechi di Alberto Méndez, un libro nato per recuperare la memoria di un evento che lui disse di aver ricevuto "per osmosi" dalle persone amate. Ascoltato, respirato, vissuto anche senza esserci stato.  
Scrittore di una sola opera (degna dello straordinario successo di critica e pubblico che ha avuto), Méndez nacque infatti nel 1941, in quello che era il tramonto della guerra civile e l'alba della dittatura franchista che durerà fino agli anni Settanta. 
La militanza politica dell’autore, che fu iscritto al Partito comunista spagnolo fino al 1982, traspare da quello che è un libro politico nel senso in cui riflette sull’esperienza collettiva e dà un proprio contributo al ricordare comune. Un romanzo fatto di racconti indipendenti che fungono da atti di una narrazione unica e ben congegnata, con personaggi che tornano nei vari testi rendendoli legati tra loro. In apertura al libro una citazione di Carlos Piera problematizza i temi chiave de I girasoli ciechi: il lutto della guerra, l’elaborazione della tragedia collettiva, la presa di coscienza del vuoto che esiste dopo eventi del genere, la relazione tra riconciliazione, ricordo e perdono. I quattro racconti che compongono il romanzo vengono presentati nei titolo come "sconfitte".
Tutti i personaggi perdono qualcosa, arrivano a una resa, sperimentano lo scacco o la perdita.
Nella prima, il Capitano Alegrìa, ufficiale d’Intendenza dell’esercito franchista, si consegna alla resistenza repubblicana poco prima della vittoria del proprio esercito. La resa di questo commovente personaggio è una scelta umana prima che politica, significa lo stare sul confine, il non sentirsi né vincitori né vinti, la presa della terza via della coscienza individuale. 
Nel secondo racconto, il più straziante, un giovane poeta di diciotto anni ci scrive da una baracca di pastori mentre la sua vita scivola nell’oblio. Con lui l'amata Elena e il loro bambino appena nato, in bilico tra la vita e la morte. La fuga che hanno tentato insieme e l'inverno fanno da sfondo alla penna del poeta che tenta di rimanere vivo finché riesce a scrivere e a difendere quel che resta della propria umanità. 
Nel terzo racconto veniamo catapultati dentro una prigione. Un maestro di violoncello comunista si trova lì incarcerato e in attesa di essere giustiziato. A interrogarlo un colonnello spietato che gli chiede notizie del proprio figlio. In un intreccio di vite e storie, la parola - quella vissuta e quella inventata - si conferma l'unico potere in grado di allungare la vita, come insegna Shahrazād. 
Il quarto racconto è quello che dà il titolo al volume, la storia di un dramma familiare, di un padre ufficialmente latitante che in realtà vive nascosto dentro un armadio, di una madre e un figlio che hanno costruito una vita quotidiana di silenzi e di un prete maligno che li vuole rovinare.
Méndez mostra come il male alberga nelle cose di tutti il giorni, come il desiderio si intreccia alla paura e racconta la guerra civile come l'assenza del principio umano della misericordia, condensando così il peso di un'intera epoca. 

I personaggi del libro sono disorientati come girasoli che hanno perso la loro capacità eliotropica. Ciechi perché sconfitti dal non trovare la loro direzione.
In alcuni di loro però continua a bruciare una fiamma d’anima, ci sono scoppi di vita e di forza. Sono i personaggi che credono davvero in qualcosa, che pur restando sconfitti restano in piedi nel profondo, persistenti. Méndez omaggia tutti quelli che hanno realmente combattuto: in Carlos, Eulalio, Elena, Juan, Ricardo e Lorenzo rivive chi ha passeggiato sulle strade spagnole di quegli anni bui, si è affacciato timoroso alle finestre, è scappato alla ricerca di salvezza.
Mendez gioca con le strutture narrative (l'evocativo "noi" del primo racconto, il manoscritto ritrovato del secondo, la polifonia del quarto...) e con i registri stilistici, tenendo insieme alta la partecipazione del lettore a queste storie paradigmatiche.
Alla fine i girasoli ciechi non sono i singoli che perdono la strada e finiscono sconfitti: rappresentano l'intero popolo vinto dalla guerra intestina e dalla dittatura che incombe, la prova tangibile che non si può rinunciare a cercare il sole. 

Ora sappiamo che il capitano Alegrìa scelse la propria morte alla cieca, senza fissare il volto furibondo del futuro che attende in agguato le vite tracciate al contrario. Scelse di spegnersi lentamente, senza passioni né manifestazioni esagerate, senza alzare la voce se non nel momento in cui attraversò il campo di battaglia, con le mani sollevate giusto quel tanto per non sembrare implorante, gridando più volte, di fronte a un nemico incredulo: «Mi sono arreso!». (p. 15)

 

Elena è morta durante il parto. Non sono stato capace di trattenerla da questo lato della vita. Sorprendentemente il bambino è vivo. È lì, sfibrato e convulso su un pezzo di tela pulita accanto alla madre morta. E io non so che fare. Non mi azzardo a toccarlo. Sicuramente lo lascerò morire insieme a sua madre che saprà avere cura di un'anima bambina e le insegnerà a ridere, se esiste un luogo dove le anime ridono. Non fuggiremo più in Francia. Senza Elena non voglio arrivare più alla fine del cammino. Senza Elena non c'è cammino. Come si corregge l'errore di essere vivo? Ho visto molti morti, ma non ho imparato come morire! (pp. 54-55)


Ho perso. Però avrei potuto vincere. Ci sarebbe stato un altro al mio posto? Racconterò a mio figlio, che mi guarda come se mi capisse, che io non avrei costretto i miei nemici a fuggire indifesi, che non avrei condannato nessuno per il solo fatto di essere un poeta. Con una matita e un foglio di carta mi sono gettato nel campo di battaglia e dal mio corpo sono sgorgate parole a fiotti che hanno consolato i feriti e dalla consolazione che disegnavo sono venuti fuori generali bestiali che hanno giustificato i feriti. Feriti, generali, generali, feriti. E io in mezzo con la mia poesia. Complice. E, per di più, morti. (p. 68) 

 

Una fotografia del generale Franco con un berretto da caserma era appesa, sorridente e fiera, alla parete di fondo accanto a un crocifisso di legno. Quella stanza vuota, in precedenza aula scolastica a giudicare dall'enorme lavagna che ricopriva la parete, raccoglieva il suono di un'energica attività esterne che si traduceva in un'eco incessante di porte sbattute, ordini secchi e passi affrettati. Però all'interno prevaleva il silenzio. I tre soldati di guardia rimanevano come statue in fondo all'aula, non come statue guerresche ma con l'immobilità della fatica, senza epica. (p. 91)
 
Qui termina la mia confessione, Padre. Non tornerò in convento e cercherò di vivere cristianamente fuori dal sacerdozio. Mi assolva se la misericordia del Signore glielo consente. Sarò uno fra i tanti del gregge, perché in futuro vivrò come uno fra i tanti girasoli ciechi. (pp. 224-225)


A cura di Claudia Consoli