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«È un dono della vita il fatto di non sapere che cosa ci aspetta»: "Lucy davanti al mare" e la profonda grazia di Elizabeth Strout

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Lucy davanti al mare
di Elizabeth Strout
Einaudi, febbraio 2024

Traduzione di Susanna Basso

pp. 232
€ 19 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Quasi di continuo c’era quella sensazione di stare sott’acqua; come se le cose non fossero vere. (p. 42)
Sono i primi giorni di marzo 2020 e il mondo intero sta vivendo quella sensazione di essere sott’acqua, mentre intorno nulla pare avere più senso. È l’inizio della pandemia di Covid-19, del lockdown, delle mascherine e dei guanti, del distanziamento sociale, della confusione e della paura. Elizabeth Strout non è la prima autrice che si confronta con questo argomento: si è messa una certa distanza temporale per elaborare quanto accaduto, intuirne i contorni delle conseguenze; soprattutto, Strout è una scrittrice dalla sensibilità rara e il racconto della pandemia aveva bisogno di questo, di una precisa grazia nello sguardo di cui l’autrice premio Pulitzer non è mai priva. Va detto che questa certa distanza dai fatti narrati la avvertiamo particolarmente in Italia dove il romanzo arriva in questi giorni tradotto come sempre dalla meravigliosa Susanna Basso per Einaudi, ma ha debuttato negli Stati Uniti nel 2022, quando all’emergenza pandemica si sommavano una serie di tensioni sociali e politiche che, come vedremo, non sono rimaste fuori dalla narrazione. E al netto della meraviglia che genera ogni volta addentrarsi nelle storie di Strout, questo probabilmente non è il suo romanzo migliore, ma di certo a mio avviso supera di una spanna molta narrazione recente – sul Covid o meno – , ritorni attesi e, sì, anche il titolo precedente dell’autrice, non dico trascurabile ma privo di quella profondità e grazia appunto caratteristici di Strout. 

Anche in Lucy davanti al mare – sul cui titolo a proposito c’è un commento non particolarmente lusinghiero da parte del Guardian – , torna uno dei personaggi più celebri dell’universo letterario di Strout, Lucy Barton, e, a mio avviso, non poteva essere altrimenti data la natura di questa storia. Scrittrice di successo ma mai davvero affrancata dai traumi e dalla povertà dell’infanzia, ritroviamo Lucy ancora in lutto per la perdita del secondo marito, il violoncellista David, i rapporti amichevoli con William, l’ex marito e padre delle sue figlie – che nel romanzo precedente accompagnava alla ricerca delle proprie origini – e una vita che di lì a poco sta per cambiare totalmente.
Anch’io, come molti altri, non l’ho vista arrivare. William però è uno scienziato, e lui sì che l’ha vista arrivare; l’ha vista prima di me, è questo che intendo. (incipit, p. 5)
È William, infatti, a convincere l’ex moglie a fare in fretta i bagagli, lasciare New York quanto prima e seguirlo per un paio di settimane in una casa presa in affitto nella piccola cittadina di Crosby, nel Maine. Prima di loro, infatti, William coglie i segnali di pericolo di quella che di lì a poco si trasformerà in una pandemia di portata mondiale, avvertendo l’urgenza di lasciare la città prima che diventi impossibile e provare così a salvarsi la vita in attesa di un vaccino. Lucy si fa convincere di malavoglia, fidandosi dell’esperienza dell’ex marito scienziato ma convinta che il soggiorno lontano da New York non durerà poi molto. Cancella il tour di promozione del suo ultimo libro, annulla qualche pranzo e appuntamento ma, come buona parte di noi all’epoca, non sospetta che le cose si evolveranno in un modo tanto tragico e inaspettato per tutti quanti. Quello che fa è fidarsi di William e seguirlo nel Maine, anche se poi il sospetto sulle vere ragioni di tanta premura a un certo punto la coglieranno.
Ho visto l’oceano su entrambi i lati della strada, ma un oceano come non l’avevo mai visto. Perfino con il cielo coperto, mi sembrava di una magnificenza incredibile; non c’erano spiagge, solo scogliere grigio scuro e marrone e sempreverdi puntuti che parevano crescere direttamente dalle cenge di roccia. Un’acqua verde scuro batteva arricciandosi sugli scogli, e alghe di un bruno dorato, quasi color rame carico, coprivano ondulate le rocce tra gli spruzzi dell’acqua verde scuro. (p. 16)
I quindici giorni che Lucy pensava sarebbe rimasta lontana dalla sua vita a New York diventano settimane e poi mesi, un lockdown che ci è in qualche modo familiare. Strout attraverso Lucy, William, le figlie lontane e gli sporadici contatti umani a Crosby racconta una realtà che pareva avere i contorni della distopia ma con la quale tutti quanti invece abbiamo avuto esperienza, seppur in forme diverse. Ma non è “solo” questo: Lucy davanti al mare – e non me ne vogliano al Guardian ma più ci penso e più invece trovo questo titolo particolarmente riuscito – è la dimostrazione del talento di Strout nell’indagare le pieghe dei suoi personaggi, coglierne i movimenti minimi, impercettibili, le debolezze, i rapporti. La loro umanità. Perché se è vero che la vita di Lucy Barton può essere distante da quella che viviamo noi ogni giorno, se le sue esperienze e traumi non sono i nostri, è pure vero che ne riconosciamo le contraddizioni, le paure, gli slanci.

C’è, sempre, al cuore delle storie di Strout un interesse profondo per le persone, lo stesso che ho colto, anni fa, nel bagliore del suo sguardo in una stanza con una manciata di giornalisti e blogger ammaliati da questa donna minuta, gentile, attenta alle parole proprie e soprattutto a quelle degli altri (qui il racconto di quell'incontro meraviglioso). L’interesse per le persone e le connessioni umane emerge fortissimo in quest’ultimo romanzo, probabilmente proprio per la natura dell’ambientazione o forse perché nel tempo Strout ha affinato ancora di più quel suo sguardo. Scegliere la cittadina immaginaria di Crosby per la vicenda è stata anche l’occasione ideale per ritrovare personaggi apparsi in altre narrazioni, da Olive Kitteridge – che qui non appare direttamente ma la sua presenza si fa comunque notare  – a Bob Burgess, con il quale Lucy stringerà una profonda amicizia in quella nuova routine lontana dalla città.
L’orecchio per le storie di Lucy è l’orecchio per le storie di Strout e, come capita spesso quando compare questo personaggio, anche stavolta il romanzo si apre qui e là a interessanti riflessioni sulla scrittura e sul mestiere, in un gioco metaletterario in cui è facile chiedersi dove finisca Lucy e dove inizi Strout, quantomeno per ciò che riguarda il ruolo di scrittrice.
Questa è la domanda che ha fatto di me una scrittrice – quel continuo, profondo desiderio di sapere che cosa si prova a essere una persona diversa. (p. 158)
Nell’isolamento a Crosby, Lucy sembra aver dimenticato come si faccia a essere una scrittrice, come ci si concentri sulle pagine di un libro, come si entri in una storia: eppure, che si sieda o meno al computer per scrivere di nuovo, Lucy Barton è ogni giorno una scrittrice. Lo è mentre arriva nel Maine e la colpisce la meravigliosa apparizione dell’oceano, lo è mentre scruta il paesaggio che poco a poco le diviene familiare e del quale Lucy-Strout ci regala brani di rara bellezza; lo è, soprattutto, mentre osserva e conosce le persone di quel microcosmo che definisce la nuova quotidianità, le loro storie, le loro debolezze; lo è, ancora, mentre cerca di rimettere insieme i pezzi della sua infanzia, nel tentativo impossibile di far conciliare la madre reale con l’immagine che nel tempo se n’era costruita per sopravvivere.

Il passato di Lucy è Lucy stessa e attraverso di lei Strout racconta ancora una volta qualcosa che la letteratura contemporanea per un certo periodo pareva aver “dimenticato”, ossia la povertà e il discorso di classe ma che oggi in particolare è un argomento urgente, attuale. Lucy e Bob si riconoscono in un background comune, nel disagio che non li ha mai abbandonati del tutto, una sorta di estraneità con il mondo che una vita adulta di riconosciuto successo non cancella.
Ma quella sera ero così triste: e ho capito – l’ho capito più volte in momenti diversi della mia vita – che l’isolamento della mia infanzia non mi avrebbe mai abbandonata. La mia infanzia era stata un lockdown. (p. 136)
Se è vero che Lucy davanti al mare è un romanzo sulla pandemia e per sua natura piuttosto circoscritto, è ancora più vero che lo sguardo di Lucy-Strout si allarga proprio questa volta a una realtà che va ben oltre i confini circoscritti della villetta affacciata sull’oceano ma si confronta, con candore e profonda umanità, con le tensioni che hanno attraversato il 2020 e con le quali non dovremmo smettere di fare i conti. Nel microcosmo bianco e privilegiato di Crosby irrompe la tragedia di George Floyd e le proteste Black Lives Matter o il malumore di una larga fetta della popolazione troppo a lungo ignorata e vessata e gli attacchi al Campidoglio. Strout chiama le cose con il proprio nome: razzismo, guerra civile, povertà. E in un momento storico dove le parole sono spesso taciute – o messe a tacere – questo ha una portata notevole.
Quello che voglio dire è che per qualche minuto ho avuto quasi una specie di visione: che ci fosse un disagio molto, molto profondo nel paese e che il mormorio di una guerra civile sembrava muoversi intorno a me come una brezza che non percepivo sulla pelle ma di cui sentivo la presenza. (p. 129)
Se le cose fossero andate diversamente tra quelle persone furiose poteva esserci Lucy? No, probabilmente no. Non tra «nazisti e razzisti» che hanno assaltato e devastato quelle stanze. Ma la rabbia, quella sottile che a volte le monta dentro e la spaventa, quella la comprende. Quella sensazione di essere stata considerata a lungo spazzatura – white trash, per richiamare la raccolta incendiaria di Dorothy Allison, originariamente scritta a fine anni Ottanta ma ripubblicata proprio nel 2021 – e che l’ha fatta vergognare per molto tempo. Parliamo spesso di povertà, ma ho come la sensazione che lo facciamo solo in determinate modalità e quando questa è ben lontana da noi, dal nostro quotidiano. Ci sono molte forme di povertà e discriminazione, quella di Lucy è una di queste. E dobbiamo parlarne, dobbiamo raccontarla, anche attraverso il filtro della letteratura, dell’invenzione.

La solitudine e l’isolamento sono quindi per Lucy Barton condizioni già note, seppur in forme diverse e per certi aspetti ora perfino meno crudeli rispetto a quello che è stata la sua infanzia. Ci sarà sempre, per questo, una distanza tra lei, William e le figlie che hanno avuto insieme. Come distanza è quella che ha dovuto mettere tra sé e le proprie origini, il fratello e la sorella. Per salvarsi. Torneranno anche in questa storia, perché il passato a quanto pare ama bussare alla porta di Lucy.
Lucy davanti al mare quindi non è “solo” un romanzo sulla pandemia, pur essendovi immerso. È, più che altro, un romanzo sulla solitudine e l’isolamento, sul trauma e la perdita – e saranno diverse le accezioni di questo termine con cui Lucy e la sua famiglia dovranno fare i conti – , sulle relazioni e sui sentimenti, sulla nostalgia, sulla scrittura.
E sulla maternità, sempre, nelle storie di Lucy Barton. La madre reale che aleggia come un fantasma tra le pagine, la madre buona che nel tempo Lucy si è costruita per tentare di sovrapporla a quella della sua infanzia, la madre che è lei per Chrissy e Becka, donne adulte con problemi da adulti. Nella distanza inevitabile del lockdown, Lucy trova un modo nuovo di essere madre per le sue due figlie e forse, e questa è la difficoltà più grande, per staccarsi da loro:
Sono rimasta un momento a guardarle mentre si allontanavano. Pensavo a quanto loro – e le loro vite – fossero diverse da come me le ero aspettate. E ho pensato: Sono le loro vite, possono farne quello che vogliono, o che devono. (p. 220)
Proprio lì, in quello scarto, tutta la paura e la necessità di diventare adulti.

Debora Lambruschini