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Le cronache della dissidenza dell'Escambray a Cuba scritte da una penna d'eccezione: Norberto Fuentes

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I condannati dell'Escambray
di Norberto Fuentes
Ago, ottobre 2023

Traduzione di Laura Gonsalez del Castillo

pp. 139
€ 15 (cartaceo)


Il secondo testo pubblicato dalla neonata Ago Edizioni (qui la recensione al primo, Confessione di mezzanotte di Gergers Duhamel) è una raccolta di mini racconti, o meglio, di cronache dal tono diaristico, intimo, ma che risuonano in modo universale, perché quando si parla di guerra (di qualsiasi guerra) ci sentiamo un po' tutti chiamati in causa. 
Norberto Fuentes (che nella prefazione preziosa di Italo Calvino viene paragonato a Beppe Fenoglio) nasce a L'Avana e diventa corrispondente dal fronte proprio durante la lotta delle bande dell'Escambray a Cuba, esperienza dalla quale nasce questo libro. Di fatto, "la ribellione dei monti Escambray", com'è ufficialmente conosciuta, fu un movimento di dissidenza portato avanti da rivoluzionari cubani tra il 1959 e il 1965 contro il regime di Fidel Castro.
Il gruppo di dissidenti era formato da ex soldati, ex guerriglieri, contadini, i quali furono praticamente tutti sterminati dal governo. Fuentes, che si aggiunse agli uomini per "dovere di cronaca", avvantaggiato da un rapporto privilegiato con Castro stesso che gli diede accesso diretto al conflitto in qualità di osservatore, registrò gli eventi in maniera quasi distaccata, da reporter più che da novelliere, e ne I condannati dell'Escambray raccontò ciò che vide. 
La cronaca ci dice che, nonostante l'amicizia con il dittatore, Fuentes tentò di fuggire dall'isola e nel 1993 fu costretto all'esilio negli Stati Uniti, aiutato da personaggi del calibro di William Kennedy e Gabriel Garcia Marquez. Oggi vive a Miami.
L'ufficiale si diresse verso l'unico armadio a tre ante. Aprì lo sportello centrale dove molti anni prima c'era stato uno vetro. Dentro c'era un uomo nascosto tra vecchi vestiti. L'uomo accennò a cercare qualcosa tra gli stracci. L'ufficiale gli disse: «Muoversi, alla jeep, senza storie». L'uomo tentò di spiegare la sua parentela con la Primorosa, ma l'ufficiale tagliò corto: «Quello che mi stai dicendo lo spiegherai in caserma. Andiamo». Lasciarono la stanza con l'armadio, il materasso buttato sul pavimento di terra calcarea, i due sgabelli, la sedia zoppa, il tavolo zoppo pure lui, la mensola dove conservava i bicchieri e i piatti di vetro e alluminio, due o tre cucchiai ossidati, il fornello a cherosene, un quadro con un occhio aperto che piangeva una lacrima rossa e una spada che la trafiggeva. Uno scorpione camminava davanti a loro e l'ufficiale lo schiacciò con lo scarpone. (p. 52)
La struttura del testo si svolge in un insieme di brevissimi racconti, come dicevo, cronache: Fuentes mostra una terra arida ma al tempo stesso rigogliosa, case diroccate, anime spente, donne e uomini sempre sul punto di cedere alla morte, alla disperazione, all'arrendevolezza. Il contrasto tra poteri è evidente: il forte schiaccia il debole, è così che funziona in guerra.
 
La scrittura è frammentata, svelta, senza fronzoli: i suoi personaggi, capitani, caporali, contadini, prostitute, soldati, sono tratteggiati appena, così non abbiamo modo di affezionarci a loro. E a che pro? Tanto sono tutti destinati a una brutta fine.

Eppure questi personaggi, che siano buoni o cattivi, sono profondamente umani: il Capitano Descalzo (così chiamato perché va in giro solo senza scarpe) ammazza un uomo, ma comunque si preoccupa per la giovinezza che sta sparendo; la prostituta Primarosa nasconde un uomo nel suo armadio, ma non fa nulla per fermare l'ufficiale, se non lanciargli una maledizione a pel di bocca; alcuni soldati, fumando insieme, distolgono la mente dalla paura della morte concentrandosi sul coraggio dei condannati alla fucilazione.
La terra è buona. Terra scura, terra rossa, terra bianca. La migliore è quella scura, bella spessa e grassa. A Manicaragua c'è una terra arenosa che non serve a niente. Pietre. Un sacco di pietre. Pietre che sembrano uova, crani sfondati, scheggiati. Pietre piene di fessure che gridano la loro immobilità sotto il sole. E intorno alle pietre defecano gli avvoltoi e sotto le pietre zampettano le talpe e la sierra vive e si alimenta della sua stessa carcassa, e un giorno al topo grigio gli si schiuse il naso come una campanula ma più rapidamente, perché annusava quello che c'era dentro quella pietra bianca con una fenditura nel centro. Decise di entrarci. Si inoltrò nella fenditura annusando tutto quello che vedeva. Il corpo si riempì dell'aria umida della roccia e allora si calmò. Il posto gli piaceva. (p. 130-131)
Al centro e intorno alle storie la terra di Cuba: la natura, la vegetazione, la sua fauna, i suoi santi pagani. Una terra affascinante, ma martoriata. 

Un testo molto diverso rispetto a quello di Duhamel: duro, cronistico, secco e dritto come una lancia. Piacerà moltissimo agli amanti della storia di Cuba, di Castro e anche a chi è appassionato di cronache giornalistiche e di guerra o di romanzi come Falsa guerra di Alvarez per Sur.

Deborah D'addetta