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«Questa via, Dumble Street, e questa città, Monmouth, sono diventati famosi. O famigerati»: “La strettoia” di Ann Petry

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La strettoia
di Ann Petry
Mondadori, settembre 2023

Traduzione di Manuela Faimali 

pp. 492
€ 22,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)


L’ultimo romanzo della scrittrice afroamericana Ann Lane Petry, pubblicato nel 1953, ha venduto oltre un milione di copie, ma, come spesso accade, non ha mai ricevuto molta attenzione da parte dei critici; La strettoia (The Narrows) è addirittura rimasto finora inedito in Italia, certamente ripagato dalla pregevole traduzione che ha finalmente permesso di (ri)scoprire un’autrice e, in particolare, questa sua opera, alquanto corposa e articolata.

La storia, ambientata nei primi anni ‘50, in una fittizia cittadina industriale del New England, Monmouth, ruota intorno a quello che, nel tempo, è divenuto un quartiere quasi interamente nero, The Narrows (da cui deriva il titolo), nel quale vige una sorta di confinamento della popolazione all’interno di questa “strettoia” marchiata dall’odio razziale

Nonostante la bellezza fasulla del primo mattino, ormai era una strada così famosa, o famigerata, che gli abitanti di Monmouth non la chiamavano quasi mai per nome, e nemmeno le strade vicine; era diventata un’area, una sezione, conosciuta alternativamente come The Narrows, Eye of the Needle, The Bottom, Little Harlem, Dark Town, Niggertown, perché i neri avevano rimpiazzato gli immigrati originari, gli irlandesi, gli italiani e i polacchi. (p. 13) 

Cuore pulsante della vicenda è Dumble Street, protagonista fin dalle righe di apertura e definita, più avanti, come «la via più turbolenta e rumorosa che si possa immaginare» (p. 246), dove, al civico numero 6, abita la settantenne Abbie Crunch con il figlio adottivo, il ventiseienne Link Williams. 

A volte provava a dare la colpa a quella strada che ora, nella quiete di una mattina di ottobre, sembrava tutta sole e ombra: l’intricato reticolo d’ombra dei giovani olmi, un’ombra più fitta e lineare in corrispondenza del vecchio acero in fondo all’isolato; un’ombra che ammorbidiva i contorni duri degli edifici di mattoni, nascondendo lo squallore delle case in legno a due piani, mentre il sole accentuava il giallore degli olmi e il rosso-arancione dell’acero, dando lucentezza al grigio tenue del molo. (p. 12) 

A rimescolare le carte di queste esistenze precarie è l’incontro fortuito, avvolto dall’oscurità del molo della centrale Dumble Street, tra Link, giovane barista nero laureato in storia e Camilo, ricca donna bianca che scrive di moda. Se non risultasse già abbastanza problematico pensare al legame di una “coppia mista”, l’omissione da parte di lei tanto del patrimonio quanto del matrimonio (Camilo Williams è, infatti, il falso nome adottato dall’ereditiera, infelicemente sposata, Camilla Treadway Sheffield) è destinata a segnare in partenza la relazione, furtivamente consumata tra un hotel di Harlem e le strade del Connecticut. 

Sebbene gli eventi scatenanti si susseguano lungo una progressione cronologica volta a determinare la linea principale della trama, a restituire la profondità dei conflitti emotivi si trovano monologhi interiori frammentati che, giustapponendo passato e presente attraverso un ampio uso del flashback, favoriscono molteplici cambiamenti del punto di vista. In questo senso, non è possibile assegnare a un singolo personaggio, nettamente dominante all’interno della narrazione, il ruolo da vero protagonista; si tratta, piuttosto, della “saga” di una comunità, caratterizzata da una scrittura le cui battute serrate sembrano ricalcare, a tratti, quelle di un canovaccio teatrale. 

Pertanto, anche figure minori acquistano una loro centralità: è il caso, ad esempio, dei coniugi Powther, i quali abitano nell’appartamento affittato da Abbie al piano superiore. È il signor Powther, in effetti, a fare da raccordo tra il mondo nero di Dumble Street e quello bianco della tenuta dei Treadway - «il genere di milionari conservatori devoti al loro paese, niente scandali, niente divorzi» (pp. 309-310), simbolo nelle scuole di «una grande storia di riscatto sociale andato a buon fine. Una storia americana di successo» (p. 361) - per cui presta servizio come maggiordomo. 

Nella contrapposizione fra questi due universi a cui è fondamentalmente proibito incontrarsi da pari a pari, Link, intenzionato a scrivere una storia della schiavitù negli Stati Uniti - non a caso, il suo nome altro non è che l’abbreviazione di Lincoln: «l’Emancipatore con le mani ossute, grandi, troppo grandi, gli occhi tristi e infossati, le grandi mani ossute quasi sempre appoggiate sulle ginocchia enormi, un uomo enorme con idee enormi» (p. 82) - sviluppa una graduale coscienza della propria identità nera, nonché una volontà di riaffermazione personale che, riconducendolo alle sue origini, sappia smarcarsi da quella sorta di primordiale senso di colpa alimentato dal costante pregiudizio razziale

Il nero era il colore più bello. Era un’idea nuova. Ci rifletté. Impossibile. Il nero è malvagio. Satana è nero. Quando Abbie diceva: Le persone nere, c’era disapprovazione nella sua voce. Il nero era indesiderabile. La pecora nera: quella cattiva. Il gatto nero: portava sfortuna. Il nero era brutto, malvagio, sporco, da evitare. Si indossava ai funerali. Era anche sinonimo di morte. Gli dimostrarono, Weak Knees e Bill Hod, che il nero poteva essere anche altre cose. Lo fecero in modo spontaneo. L’ebano era il legno migliore, il più duro, ed era nero. Il prosciutto della Virginia era il prosciutto migliore. Era nero all’esterno. Smoking e frac erano neri, ed erano i vestiti da uomo più raffinati e costosi. Bisognava usare il pepe per rendere gustose molte carni e verdure. Il pepe più saporito era quello nero. Il caviale migliore era nero. I gioielli più rari erano neri: opali neri, perle nere. (pp. 170-171)

Anche in virtù di questa potente coscienza storica, la fiducia di Link nei riguardi di Camilo/Camilla risulta minata fin dalla base, mentre appare man mano sempre più chiaro che lei «possedeva ogni cosa: persone, automobili, case, e se ne impossessava rapidamente: comprava fattorini, addetti alla reception e all’ascensore, portieri. Li comprava in fretta. Aveva comprato anche lui» (p. 324). Così, quando quest’ultima, ferita nell’orgoglio, si ritrova, nei pressi del molo che ha fatto da sfondo al primo fatidico incontro, a interpretare d’impulso una sorta di Fedra senecana, accusando l’amante di averle usato violenza, la tragedia raggiunge il suo apice. 

Del resto, l’autrice prepara il terreno per centinaia di pagine, disseminando la narrazione di dettagli emblematici, a partire dall’esergo tratto da un potente dramma shakespeariano (fonte di ispirazione per la fittizia cittadina di Monmouth), per arrivare alla triste insegna al neon del locale dove Link, in attesa di proseguire le proprie ricerche storiche, ha deciso di lavorare: The Last ChanceÈ davvero l’ultima occasione per chi, come Abbie, sceglie di interrompere il circolo vizioso di accuse, tradimenti e ritorsioni che ha tirato le fila della vicenda, giacché si ferma a pensare: «in un modo o nell’altro siamo tutti responsabili, abbiamo reagito con violenza a quelle due persone, a Link e alla ragazza, perché lui era di colore e lei bianca» (p. 476). 

Ann Petry si propone, quindi, di raffigurare gli sciagurati effetti di un’intera società viziata dall’intolleranza, mostrando la polarizzazione razziale fomentata dalle tutte le istituzioni dell’epoca, ma chiude il cerchio del proprio romanzo con una nota di speranza contraddistinta dalla rinnovata forza d’animo del personaggio femminile principale. Così facendo, non risulta interessata a fornire facili risposte ai problemi che presenta, né a nascondere alcuna delle complicazioni da essi derivanti, quanto piuttosto votata al coinvolgimento totale del proprio lettore. Da qui la trascrizione anche del minimo dettaglio, dal rumore notturno del fiume che lambisce il molo, alla sensazione della nebbia che da lì risale fin sulla strada, come solo chi sa praticare con maestria l’arte della scrittura è veramente capace di fare.

Chiara Tolomei