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Sperimentazione linguistica e favole perse nella Sicilia della seconda guerra mondiale: torna in libreria Veronica Galletta con "Pelleossa"

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Pelleossa
di Veronica Galletta
minimum fax, ottobre 2023

pp. 345
€ 19 (cartaceo)


Paolino sentì una stretta al cuore. Quella della principessa che si era fatta il marito da sola era una favola, lo sapevano tutti. Non esistevano le fidanzate di legno, senza culura, senza sapura. Forse quando s'addiventa vecchi si perdono le cose. La parola, come nonno Silvestro certi iorna; l'occhi e l'aricchi, come Zu Ntoni. O la testa, come Filippu. Forse faceva tutte ste teste perché cercava di ritrovare la sua (p. 72)
Veronica Galletta, finalista al Premio Strega con il suo Nina sull'argine (minimum fax, 2021) torna in libreria con questo romanzo, Pelleossa, che le è valsa un'altra finale, quella del Premio Neri Pozza per opere inedite. 
Stavolta il tema, il registro e il tono sono completamenti diversi: ci troviamo a Santafarra nel 1943, un villaggio di fantasia sulla costa sud-ovest della Sicilia (ipotizzo, dalla descrizione del panorama e Girgenti richiama la città di Agrigento, ma potrei sbagliarmi). Il protagonista di maggior peso è Paolino Rasura detto Ncatesimo, un bambino di otto anni che la storia segue per quattro, dal 1943 al 1947: gli amici lo prendono in giro, gli affibbiano questa ingiuria (nel testo, il termine dialettale sta per "soprannome") perché ogni tanto si perde nei suoi pensieri, isolandosi dal mondo. A Paolino non piace questo nomignolo, vuole dimostrare di essere forte, coraggioso, così accetta una sfida: salire su al Giardino di Filuppu il Pazzo, il cosiddetto scemo del paese, o meglio ancora, lo scemo di guerra.
Si prendeva gioco di lui. Tutti lo babbiavano, Cateno con Ncantesimo, Pascali con i pisci, sa frati Calogero con la sua morti non morti, le Teste con i loro discorsa strammi. E ora la Grotta [...] (p. 184)
Paolino, morto di paura, incontra Filuppu, che tanto pazzo e scemo non è. Scolpisce teste magiche, teste di pietra di morti illustri, che - sorpresa delle soprese - parlano, dando lezioni e consolazioni al bambino, spesso confuso, triste, melancolico, combattuto tra l'appartenenza a una famiglia, quella dei Rasura, di Sali, ovvero di pescatori, e la sua "vocazione" per le cose tangibili, per le cose Terragne
Il contrasto è presto fatto: un padre, Felice Rasura detto Saracino, che lo vorrebbe pescatore come lui, e l'attenzione che Paolino pone, inconsapevolmente, nei confronti degli "ultimi": Filuppu stesso, Zu Ntoni, un vecchio cieco e sordo (forse), che gli racconta storie incredibili sulla sua vita da minatore, Ciccio, il fratellino minore, sordo anche lui, e Calogero, il fratello maggiore, soldato volontario morto ma non morto.
La guerra fa da sfondo alla narrazione: le camionette degli americani, le giubbe piene di sigarette, tavolette di cioccolato, gomme da masticare; il destino di Calogero, partito volontario convinto e poi? chissà, disperso e ritrovato; la miseria, la politica, le Teste in forma di Garibaldi e Vittorio Emanuele III; la preoccupazione per i maligni, quei diavoli dei comunisti.
E sigarette assai, nelle tasche, nella giubba, dentro la camionetta, che misero tutti d'accordo, che a Santafarra a furia di fumarisi pàmpini di vite rinsecchiti e foglie di mulinciana facevano sogni carichi di mostri (p. 43)
Ciò però che a Paolino importa, saltando tra una tragedia e l'altra incassando malamente colpi, sono i sogni e le storie: i grandi non fanno altro che parlare con lui, un bambino di otto anni, di cose da grandi e lui risponde, ringrazia, cercando la famiglia fuori dalla famiglia (come dirà sua madre Lucia). Paolino è una creatura estremamente sensibile, delicata, fedele. Fedele a tutti, agli amici, ai fratelli, a Filuppu e Zu Ntoni, a Natàlia, il suo primo amore, figlia di una donna russa e di Angelo Foglia, ahimè!, comunista anche lui. Un bambino incantesimato nel vero senso della parola, perso negli incantesimi che gli adulti tessono intorno a lui. 
Paolino aspettava la parola dei vivi e il ritorno dei morti, in un modo tutto suo, come di chi aspetta senza aspettare, perché se le stelle se ne accorgevano, che stava aspettando, la notte poi i diavola lo venivano a cercare (p. 112)
Non è un romanzo dagli avvenimenti clamorosi o dai colpi di scena: la narrazione è lenta, procede come se davvero ogni pagina fosse un giorno da sfogliare, da cancellare sul calendario. Tutta l'azione, se così vogliamo dire, si concentra nei drammi di famiglia e del paesino, nell'intreccio delle amicizie, nell'analisi intima di Paolino e degli altri personaggi principali, Filippu - con le sue teste, la sua perduta Meri e Fatuzza, la lucertola magica - Zu Ntoni, saggio e forse un po' magico anche lui - Calogero, il maggiore dei figli di Felice Rasura, con le sue idee e il suo coraggio. 

La lingua poi: un italiano sicilianizzato o un siciliano italianizzato, a voi la scelta. Le prime venti pagine sono state un bello scoglio, ma dopo, assimilate le terminologie, la lettura diventa più scorrevole. 
Sicuramente non è un libro che si riesce a leggere tutto d'un fiato: io che sono pugliese e studio il dialetto partenopeo, nonostante la mia praticità con le lingue vernacolari, ho avuto qualche inciampo all'inizio. Per questo motivo, le trecento e passa pagine del libro potrebbero risultare pesanti a chi non ha neanche la minima confidenza col dialetto.
In qualsiasi caso, non deve sorprendere questa scelta: in primo luogo l'autrice è siciliana, e in seconda battuta minimum fax non fa segreto del suo amore per i testi ibridi, per la sperimentazione linguistica spesso esplicitata dalla presenza del dialetto (si veda, ad esempio, Sangue di Giuda di Graziano Gala).
L'autrice deve aver speso moltissimo tempo a calibrare il suo linguaggio, cosa per cui bisogna darle merito. 

Lo consiglio agli amanti dei classiconi: come mi ha fatto notare un'amica, questo testo ricorda molto Verga, e io aggiungo anche che chi ha letto Sciascia o Rodari o Collodi (chissà perché, questa storia mi ricorda un po’ Pinocchio) non ne resterà deluso.

Deborah D'Addetta