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Una storia di fabbrica: (ri)scoprire "Donnarumma all'assalto" di Ottiero Ottieri

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Donnarumma all’assalto
di Ottiero Ottieri
Utopia, 2023

pp. 240
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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Composto nella seconda metà degli anni ‘50, in (e per parlare di) una società che cambiava, e non in maniera omogenea sull’intero territorio nazionale, Donnarumma all’assalto torna in libreria grazie alla riscoperta di Utopia. L’opera, che si colloca, per la sua natura ibrida, in equilibrio tra il romanzo e il reportage, si ispira alla reale esperienza lavorativa di Ottieri nella nuova sede della Olivetti di Pozzuoli

UNA FABBRICA, UN MONDO

Narratore è un impiegato inviato dal nord per occuparsi della selezione del personale sfruttando le nuove arti della psicotecnica. La sua, inizialmente, è la prospettiva ottimistica e sottilmente paternalistica del forestiero, importatore di progresso in un territorio fertile ma ancora non valorizzato. Non a caso, inizialmente, egli utilizza un “noi” che incarna una visione collettiva, aziendale, ma più genericamente “nordica”, inevitabilmente borghese, del contesto in cui si troverà presto immerso.

Questo paese è come una miniera umana; cova fra le più profonde ricchezze d’uomini nel mondo. Noi siamo venuti a scoprire un nuovo, difficile oro, sepolto dalla natura e dalla storia. (p. 7)

Lo stabilimento, moderno, luminoso, costruito secondo tutte le nuove indicazioni relative alla qualità degli ambienti di lavoro, sorge come un’entità aliena sulla costa campana, tra acciaierie e tabacchi («Di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata, nell’idea dell’architetto, in rispetto alla bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno», p. 106). Si tratta di una fabbrica concepita «a misura d’uomo», spiega il presidente della società sceso dal nord, pensata perché «questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza» (ibid.). Eppure non servono che poche pagine per vedere, al di là dei nobili intenti e dei salari più alti della zona, l’uomo scomparire tra gli ingranaggi della produzione in serie, la competenza risucchiata dal ritmo frenetico, la necessità individuale sovrastata dalla legge aziendale, sorda e ineluttabile. I nomi, fondamentali nel processo di selezione, finiscono per scomparire in mezzo ad altri nomi. Per gli operai stessi, i patimenti dei momenti dell’assunzione presto si confonderanno, si appiattiranno, saranno dimenticati.
I capitoli sono articolati riprendendo la scansione dei giorni, che segnala lo scorrere sempre uguale delle settimane e poi dei mesi, ma rimandano anche alla monotonia del lavoro in serie, che si ripete sempre uguale e «scompone, frammenta la personalità umana» (p. 25) proprio nel momento in cui la costringe a un’iperspecializzazione. Le pagine dedicate ai metodi produttivi, al rapporto tra divisione del lavoro e alienazione, si fanno manifesto di una riflessione sociologica e antropologica di lungo corso, che non diventa meno attuale con il passare del tempo.

UNO SPAESAMENTO SU DIVERSI LIVELLI

Quello che sperimenta il selezionatore, nonché io narrante, nel suo arrivo a Santa Maria è uno spaesamento culturale su più livelli. Il tasso di disoccupazione dell’area è altissimo, spaventosa la sproporzione tra il numero di posti offerti e i potenziali lavoratori (più di quarantamila sono le domande già in archivio). A chi viene da fuori è impossibile una comprensione piena, che non sia inevitabilmente superficiale, di ciò che domina i candidati, della disperazione che li porta a buttarsi sotto le ruote dell’auto del direttore, o a fargli la posta nella piazza del paese, della corruzione dilagante, delle pretese irrazionali. «Voi siete onesto, dottore. Venite dall’alta Italia. Ma dovete capire» (p. 90), commenta un membro della Commissione Interna di fronte a uno sdegno che potremmo definire antropologico. Ai ragionamenti sensati, che obbediscono a una severa logica aziendale, che è di attenzione all’uomo, ma prima di tutto al profitto («la fabbrica ha le sue leggi. […] È la legge dell’organizzazione. […] Solo l’organizzazione produttiva decide», p. 63), i disoccupati oppongono un’obiezione viscerale, che annienta ogni possibile risposta ragionevole: 

“Voi avete ragione”, ha ripetuto ancora. “Ma io me moro di fame. E la fame è brutta, dottore”. (p. 64)


DONNARUMMA CONTRO TUTTI

Nella routine monotona e straniante dei colloqui (e quelli con chi potrebbe essere assunto passano quasi in secondo piano rispetto a quelli con chi assunto non è stato, e ora reclama spiegazioni, attenzione, pietà), la figura granitica di Donnarumma irrompe e destabilizza. Lui rifiuta di farsi risucchiare dalla prassi, dalle regole. È mosso da un imperativo categorico di cui ignora le origini o le ragioni, e si pianta come un cuneo all’interno di un sistema solo apparentemente ben oliato.

Aveva il petto quadrato in un maglione, i capelli grigi a spazzola, gli occhi duri; non guardava niente, né l’interlocutore, né la stanza. Ha solo deciso:
“Debbo lavorare, debbo faticare, dottore”. (p. 109)

Lui non concepisce domanda d’impiego, perché il lavoro deve essere dovuto a chi lo vuole e lo deve fare. Non tollera mortificazione, ed è disposto a usare la forza per far valere il suo diritto. La sua presenza seria alle soglie dello stabilimento ne fa una sorta di Erinni, una figura in grado di ossessionare la coscienza dell’esaminatore. Donnarumma sfugge a ogni catalogazione, a ogni norma di buonsenso. Lui solo è in grado, come kryptonite, di annientare ogni alibi, ogni tentativo autoassolutorio. Se agli abitanti del paese è in larga parte sufficiente ricevere le attenzioni dell’azienda, fosse anche per un diniego, Donnarumma oppone il no fermo, oppositivo, del suo corpo, del suo spirito.

Il paese capisce, inconsapevolmente, la connessione tra la bellezza dello stabilimento e il valore del “no“ spiegato con migliaia di vuote parole, quel rifiuto a ogni persona che, nei giorni neri, appare una pazzia inutile, un lusso paternalistico.
“Ma Donnarumma?”.
“Donnarumma è pazzo, dottore”. (p. 173)


UNA QUESTIONE MERIDIONALE

La situazione sociale descritta da Ottieri, il suo affondo in una questione meridionale non risolta, non sembra così differente da quella ritratta da Verga sul finire dell’Ottocento: 

In questa zona industriale, l’industria vive arroccata, goccia nel mare o nella sabbia di una civiltà di pescatori senza barca e di contadini senza terra. Nessun tessuto lega una fabbrica e l’altra, non c’è proletariato. La disoccupazione non unisce, ma sempre divide, tranne quando esplode. (p. 138)

L’attenzione di Ottieri non è mai riduttiva o semplicistica, mai focalizzata su un solo aspetto, o su ciò che avviene all’interno dello stabilimento. Anzi, per comprendere ciò che avviene dentro, è fondamentale guardare al fuori, a un’area «ricca di regge e povera in ogni suo buco, antica capitale depressa, nel dramma del mezzogiorno», in cui «si spreca una manodopera senza opera, una popolazione industriale senza industria» (p. 150). Lo stesso fenomeno dell’alienazione, più volte chiamato in causa, al sud non può avere le stesse forme e manifestazioni che nelle società industrializzate del nord. Qui anche un’occupazione come il lavoro nella catena di montaggio diventa, con buona pace di Marx, meno snaturante per l’uomo della disoccupazione a cui sarebbe altrimenti costretto. Il romanzo di Ottieri è dunque popolato di figure, tragiche nella miseria che si trascinano addosso ed esibiscono come bandiera: Accettura, Dattilo, Papaleo, Chiodo… ciascuno sventola la propria storia in cerca di comprensione e, di conseguenza, di lavoro. 


UN DRAMMA ETICO NON RISOLTO

A questi si contrappone il dramma, tutto etico, dell’esaminatore, che ha in mano vite di cui decidere, che deve pesare e trovare un equilibrio tra i dati numerici, le osservazioni fattuali e le impressioni personali, limitando una innata tendenza alla compassione che potrebbe alterare la valutazione, creando nuove discriminazioni. Ma «le biografie sono più forti del giudizio» (p. 177) e il confine è dunque labile, i limiti devono essere continuamente ribaditi, anche a se stessi. Forse è per questo che l’ufficio del personale perde in efficienza, in assertività. Si concede troppo all’ascolto, si lascia invischiare nelle faccende personali degli uomini e delle donne. E se questo da un lato porta umanità, dall’altro diventa elemento di fragilità del sistema. Al narratore viene dunque annunciato un suo prossimo trasferimento, un ritorno al nord:

Forse negli ultimi tempi la fabbrica era troppo una casa. Moriva il significato politico di essa, come esperimento di industria moderna del mezzogiorno, come accensione di una nuova vita operaia: non la giudicavo più, non mi sdegnavo più, preso dal suo giro, affondato nel suo fascino quotidiano. (p. 206)

L’allontanamento, accompagnato dalla consapevolezza di un lavoro non concluso (forse non concludibile), lascia nel narratore un’amarezza in cui si mescolano i blu del mare e del cielo e gli occhi scuri, vuoti, di Donnarumma, che si immagina impegnato a orchestrare un ultimo assalto, ma che, più probabilmente, si fa simbolo di una umanità sconfitta.

In un momento in cui alcune ricerche segnalano insoddisfazione e malessere nel 70% dei lavoratori, il romanzo di Ottieri torna a parlarci con una forza inaspettata, e risulta al lettore davvero inquietante notare quante risonanze possano trovare nel presente riflessioni nate in un contesto storico e sociale così apparentemente lontano nel tempo.

Carolina Pernigo