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Così è, se vi pare. Il romanzo si traveste da pièce teatrale per raccontare l'episodio di una serie televisiva: "Io resto re dei miei dolori" di Philippe Forest

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Io resto il re dei miei dolori Philippe Forest

Io resto re dei miei dolori
di Philippe Forest
Fandango, luglio 2023

Traduzione di Gabriella Bosco

pp. 288
€ 20,00 (cartaceo)

Tutto il segreto dell'arte è lì. "Segreto" è forse eccessivo. Elaborare una rappresentazione della realtà che passi per vera. E allo stesso tempo mostrarne il carattere artificioso. In modo che si debba contemporaneamente crederci e non crederci. (p. 136)
È il 1954 e il Primo Ministro sta per compiere ottant'anni. Come regalo, viene commissionato dalle Camere un suo ritratto per mano di uno dei pittori modernisti più in voga del momento. Durante le lunghe sessioni di posa le due figure si confrontano sulle loro vite, sulle tragedie e i successi che le hanno costellate. Questi due uomini sono raffigurati e raccontati come se si trattasse di una pièce teatrale, e potrebbero avere qualunque nome: tutte le storie sono un'unica storia, i personaggi vengono definiti dal drammaturgo che, forte della lezione shakespeariana, sa che la rosa, con qualunque nome, avrebbe lo stesso profumo. Eppure i due personaggi hanno un'identità precisa: sono Winston Churchill, al suo secondo mandato come Primo Ministro, e Graham Sutherland, pittore che il passare del tempo ha derubato della sua legittima fama. 

Quello che, fino a pochi anni fa, era un evento storico marginale e conosciuto giusto come curiosità è ormai noto; per lo meno, lo è per i vari milioni di spettatori di una delle serie evento degli ultimi anni: The Crown, la serie creata da Peter Morgan che racconta le vicende della famiglia reale inglese partendo dagli ultimi anni di regno di Giorgio VI fino ad arrivare (quasi) ai giorni nostri. Nel nono episodio della prima stagione, insieme alla visione delle spaccature matrimoniali tra Elisabetta e Filippo, assistiamo al vacillare del potere di Winston Churchill, ormai alla soglia degli ottant'anni, insidiato dal suo ministro degli Esteri, e della realizzazione del suo ritratto da parte di Graham Sutherland. Ritratto che non sarà per nulla apprezzato dal soggetto e che verrà dato alle fiamme nel parco di Chartwell, la tenuta dove Churchill viveva e dipingeva ossessivamente sempre lo stesso stagno. L'autore francese Philippe Forest, nel suo ultimo romanzo Io resto re dei miei dolori, edito da Fandango, prende l'avvio proprio da questo episodio per costruire un romanzo che è strutturato come una pièce teatrale: durante tutta la narrazione, chi legge viene messo di fronte alla natura fittizia della storia, si rompe continuamente la sospensione dell'incredulità e la quarta parte per mostrare come l'arte, alla fine, racconti sempre le stesse storie, che principio e fine si confondono e che i drammi accomunano tutti, personaggi storici, fittizi e scrittori senza mettere una reale distinzione tra queste tre categorie.
Nel 1954, Winston Churchill è sul punto di festeggiare il suo ottantesimo compleanno.
Questo è, se vogliamo e per questa volta, l'argomento della pièce – voglio dire del romanzo. (p. 86)
Fino a questo punto, i personaggi non vengono mai citati per nome anche se dei dettagli – il sigaro, il bicchiere di whisky, il viso da bulldog – non lasciano dubbi sull'identità del soggetto del dipinto. L'autore mette in scena su pagina un dramma con tanto di inserimenti del coro, come se fossimo in una tragedia di Eschilo, grazie ai quali si esprime, spiega le sue motivazioni, si arrovella sul significato e sulla fascinazione nei confronti dell'episodio e del tema, senza mai riuscire a venirne veramente a capo in una sorta di manifesto artistico. Non lesina perplessità anche sulla scelta dei discorsi che Churchill e Sutherland fanno durante le sedute di posa, il cui argomento principale è riportato in The Crown, ovvero la perdita di un figlio per entrambi i personaggi.
Che due individui vittime dello stesso lutto trasformino un dolore come quello in un argomento di conversazione, faccio un po' fatica a crederlo. Detto tra noi: trovo l'ipotesi persino un po' inverosimile. [...] E, mano a mano che gli anni passano, viene a formarsi la versione di cui non ha più senso chiedersi chi ne sia stato l'autore e nella quale non c'è più modo di distinguere il vero dal falso. (p. 197)
Churchill perse la figlia Marigold nel 1918, quando la bambina aveva poco più di due anni; Sutherland perse il figlio a pochi mesi di vita; Philippe Forest ha perso la figlia, dell'età di quattro anni, per via del cancro. Una tragedia che accomuna tutti i tre i personaggi e annulla la loro condizione e distanza. Non c'è più la figura reale o l'invenzione, c'è il lutto che corre per tutta la narrazione. La riflessione sull'evento non occupa uno spazio così importante sulla pagina, sono più le riflessioni sull'arte, sulla sua tecnica e il suo ruolo a catalizzare l'interesse, ma il silenzio sulla vicenda, il suo intrecciarsi con il reale la fa deflagrare sulla pagina. Forse recitato avrebbe un altro effetto: nella lettura non c'è spazio per il patetismo o anche solo per l'empatia, si viene risucchiati dalle continue riflessioni, tanto che gli intermezzi si prendono anche troppo spazio. Dopo l'interpretazione di John Lithgow in The Crown, è impossibile non sovrapporre l'impatto del dolore che trema nelle guance dell'attore mentre racconta della figlia e che lascia spazio alla dimensione personale e domestica di Churchill, a cui si pensa poco. 
Inesorabile, l'attore continua, afferma che una volta usciti dalla sala, lo spettacolo offerto al pubblico non proporrà nessuna morale di cui servirsi e da poter utilizzare per la propria vita. Non c'è nessuna filosofia che possa esserne dedotta. (p. 27)
Non c'è una morale nel comportamento dei personaggi, né nelle tragedie che hanno costellato le loro vite. C'è solo un'arte che decostruisce sé stessa, si mostra a nudo nella sua impalcatura fatta di spuntoni di metallo e che è così vera da riuscire ad ammettere che, per ogni vicenda umana, da sempre si racconta la stessa storia che ancora non siamo riusciti a imparare e della quale non ci stanchiamo mai.

Giulia Pretta