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L’algebra del dolore che ti raddoppia la voglia di vita mentre te ne priva. Catabasi nell’obitorio per ritrovare il proprio io nel nuovo romanzo di Daniele Scalese

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Anna sta coi morti
di Daniele Scalese
Pidgin edizioni, 3 maggio 2023

pp. 164
€ 17,00 (cartaceo)


Crediamo di voler essere amati, ma noi vogliamo essere capiti. Perdonati e liberati. Tutti i corpi dell’ obitorio c’erano riusciti. Ed Emilia aveva ragione: alla morte ci si abitua. […] In obitorio sembravo dimenticarmi della malattia di Anna, di ciò che avrebbe comportato. Era come se le mie preoccupazioni si dilatassero fino a disperdersi sul pavimento, scivolassero sottoterra. Forse la morte voleva restituirmi ciò che mi aveva tolto o riscattarsi della pessima pubblicità. (pp. 31-32)

Anna ha scoperto di avere una terribile malattia: la leucemia linfoblastica acuta, una forma tumorale. Avrebbe bisogno di curarsi con la chemioterapia, ma la rifiuta per proteggere la nuova vita che porta in grembo da poche settimane. Enzo, suo compagno e voce narrante, ritira l’infausto referto ed ha il compito di riferile la brutta notizia. Sono le pagine iniziali del libro: siamo catapultati nel loro presente, in una realtà dolorosa e anche disturbante. Tra una scena e l’altra sono inseriti dei flashback, che ci permettono di conoscere l’esordio della loro storia d’amore, una storia tra le pareti dell’ obitorio, coi morti a fare da testimoni. Nel libro campeggia non solo la malattia di Anna, ma anche questioni irrisolte nella vita del compagno. Altre scene a ritroso ci permettono, infatti, di conoscere i fantasmi di Enzo: l’abbandono del padre e la morte della sorella Eva, due perdite che gli pesano sul cuore fino a farlo soffocare. Una scrittura su più piani narrativi e con una soluzione testuale interessante, poiché oltre a queste finestre temporali si inseriscono nella narrazione in prima persona di Enzo, anche i pensieri, sempre in prima persona di Anna,  (e non solo) distinti dal discorso narrativo principale dal font in corsivo.

L’obitorio è il luogo dove Anna lavora fino al riposo per gravidanza a rischio e verrà poi sostituita da Enzo che è senza lavoro e che cerca di contribuire per la famiglia “consolando“ occasionalmente vedove tristi:
«Guardiamo i morti per capire i vivi. La morte ci rivela» . L’obitorio è un edificio per identificare i cadaveri. Io non sapevo chi ero. La mia non era una crisi di identità ma una sua ricerca. Era quello il luogo in cui dovevo essere. Quel luogo serviva a riconoscere me. Che non fossi morto era solo un dettaglio. Come dice Alberto: la differenza tra un vivo e un morto sta solo posizionamento al di sopra o al di sotto della terra». (p.82)
Anna, che ha effettivamente i giorni contati, cerca di reagire e di incoraggiare gli altri malati come lei attraverso un profilo social che ha raggiunto tantissimi iscritti: la donna si sforza di essere regolare nelle condivisioni e nei post di apparire sempre calma e serena. Partecipa anche ad un programma televisivo dove finge un controllo che non ha: con gli altri si mostra forte, mentre è con Enzo che si può mostrare in tutta la sua fragilità, è con lui che getta la maschera di chi ha la situazione sotto controllo per rivelare gli aspetti più laidi, terribili e umilianti della malattia che avanza giorno dopo giorno fino a ridurla a pelle e ossa. Questa dolorosa infermità di lei non li avvicina, ma, a poco a poco li allontana: il corpo di Anna è diventato così delicato che sembra sfaldarsi a strati e perdere sangue al minimo tocco. Enzo, preda continua dei suoi fantasmi, cerca di colmare le proprie voragini interiori incontrando vedove compiacenti,  ma vi riesce solo nella pace del Meno Uno, l’obitorio, il «back office della vita» (p. 28), un ambiente dove anche altri suoi colleghi  passano gran parte delle loro giornate a nascondere i propri terribili segretiLa bambina nel grembo di Anna porta tutt’altro che gioia nella coppia, entrambi sanno che dalla prova della malattia qualcosa nella loro storia si è rotto: lei non è più sicura di amarlo, presa dall’immagine esteriore della malata-guru super virale, lui, che la accudisce, si sente come una clessidra, che «si svuota da una parte per riempirsi dall’altra» (p. 136). Una narrazione straniante dove anche le rarissime descrizioni paesaggistiche comunicano, con pochi graffi di penna, un mondo desolante:

Un sole guasto si proteggeva tra palazzi a punta che bucavano il cielo e il tramonto era una coperta corta sulla città esposta. Come noi, la vita sembrava fragile. Un uomo pericolosamente magro mi fissava dalla finestra. Qui c’era cresciuto e lo aveva accettato. Smisi di guardarlo io, entrai in casa. Ricordai quando Anna mi disse che le parole più utilizzate nelle conversazioni sono io e no e la nostra esistenza consiste in una costante autocastrazione. (p. 22)

Questo libro non è adatto a tutti. Parla di malattia, di dolore fisico e spirituale, di morte e di guarigione. Non è una lettura consolatoria. Parla dei fantasmi che ci portiamo dentro, di lutti non elaborati, di sensi di colpa che divorano. Tanta sostanza in poche pagine, circa centocinquanta. Quel tutto misurato e che rende superfluo il resto. Ma com’è possibile? L’ho letto e riletto, perché avevo la sensazione di essermi persa qualcosa di importante e sono sicura che a rileggerlo altre volte potrei ancora scoprire qualche nuova parola rivelatrice, un passo illuminante, uno squarcio nella narrazione. Anna sta coi morti ha una prosa scabra, anemica di descrizioni eppure le parole sono rosso vivo, sono quelle poche, mirate frasi brevi che tagliano come piccole e affilatissime lame che sporcano le pagine di sangue. E sono quelle frasi lapidarie e secche che ti incidono la coscienza o quei dialoghi spezzati o solo suggeriti. È la prosa giusta che concentra e non disperde materia narrativa, è una prosa che lascia dei silenzi, poiché «le persone riempiono i silenzi di ciò che sono» (p. 37). Il dolore prende forma in questa prosa ridotta all’osso. Bisogna imparare a trovare l’equilibrio mentre si legge il libro, lo stile è straniante, si rischia, soprattutto all’inizio, di rimanere disorientati: la prosa di Scalese è sperimentale, è sopra le righe, una frase continua a vibrare ancora alla fine del frammento.

Marianna Inserra