in

«Io sono il mio corpo, che accumula segni, ferite, cicatrici. Corpo che è il mio sigillo, testo che parla di me». Il toccante memoir di Ada D'Adamo

- -



 

Come d’aria
di Ada d’Adamo
Elliot, 2023

pp. 134
€ 15,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

«Bisognerebbe potersi immergere ogni giorno in una pozza d’acqua nella quale, stretti in un abbraccio, sciogliere per un po’ il peso della vita» (p. 80)
Una madre si rivolge a una figlia, il tu più universale di tutti. Eppure fin dalle primissime pagine appare chiaro che la storia narrata ha l’intensità di una verità privata, esposta a darle forma in un’opera che riesce a essere insieme uno schiaffo e una carezza. Al centro di tutto, una riflessione sull’identità di una donna, nel momento in cui si trova a entrare nella condizione della maternità, in particolare in una maternità invasiva e totalizzante come quella che coinvolge un figlio con una grave disabilità. In quel caso, tutto contribuisce a evidenziare un prima e un dopo, e la donna, la persona stessa che è, rischia di soccombere a un ruolo, quello di mamma, che parla, agisce, esprime bisogni al posto del proprio nato, e spesso viene identificata e riconosciuta solo in funzione di lui. Il dolore delle altre è irriducibile al proprio, così come le reazioni, eppure c’è qualcosa di comune in questo sentire, e le sale d’aspetto degli ospedali diventano il luogo di una primigenia, laicissima forma di comunione. Ada osserva altri figli, altre madri: nessuno è come Daria, nessuna è come lei, tutti però hanno qualcosa in comune, un «groviglio di amore e disperazione» (p. 40) in cui è difficile distinguere i confini tra i due sentimenti. Anche in forza di questo, nel 2008 la donna scrive una lettera a Corrado Augias, su «La Repubblica», in cui, mentre dichiara l’amore per la propria figlia, difende però anche il diritto delle donne a poter scegliere, a poter capire in piena libertà le implicazioni di una vita con un bambino o una bambina “imperfetti”:
Volevo spezzare la divisione tra buone e cattive madri. Non volevo piegarmi all’ipocrisia, autoincludendomi senza alcun merito nel novero delle donne che avevano abbracciato la croce ed erano citate come esempio di virtù. Io la croce avrei preferito non caricarmela sulle spalle, la virtù non l’avevo scelta. Non mi sentivo, e non mi sentirò mai, una “madre coraggio”. (p. 40).
«Quando si parla di disabilità, è quasi impossibile sottrarsi alla retorica» (p. 58), denuncia l’autrice, in un’opera che la rifugge in ogni pagina, grazie a un’attentissima selezione del linguaggio, asciutto e calibrato, da cui viene asportata ogni parola di troppo. Non c’è alcun tentativo di edulcorazione dell’esperienza di questa maternità, che nei primi mesi è «un brutto incubo», «uno dei periodi più difficili della nostra vita» (p. 60). Al contempo si avverte forte il rifiuto di qualunque forma di autocommiserazione: non è pietà che cerca D’Adamo, se mai compassione, ovvero la comprensione profonda del dolore e del coraggio di un altro essere umano. Perché quella narrata in Come d’aria è in verità una storia d’amore, che parla di fragilità e di forza, della capacità di rialzarsi, di una terra impregnata di lacrime che, anche in virtù di questo, può fiorire. La vita con Daria costringe a fare esperienza con diversi modi di relazionarsi al mondo, diverse forme di sensorialità. Costringe anche a rivalutare le persone che assistono, e il peso dei traguardi: «quel poco diventa tanto. Brevi attimi di felicità fioriscono tra le pieghe dei giorni. Durano un istante, ma è grazie a questi istanti che si può andare avanti» (p. 53).

In questo percorso, quasi nulla è facile: anche i rapporti con gli altri ne sono inevitabilmente condizionati, tra chi pecca di mancanza di delicatezza e chi di eccesso di protezione. L’esito è in tutti i casi una profonda solitudine, che scava dall’interno senza intaccare la superficie. La similitudine, efficacissima, utilizzata è quella del punteruolo delle palme, che con il suo lavorio sommerso trasforma una pianta apparentemente viva in «un involucro pieno di segatura» (p. 75).
Fin dal momento in cui Daria nasce, la relazione tra madre e figlia è fondata sul contatto. In assenza di una comunicazione verbale possibile, a parlare sono i corpi, i fluidi, le mani: «una simbiosi assoluta, insieme misteriosa e carnale» (p. 29). Le cose sembrano cambiare quando ad Ada viene diagnosticata una malattia che questa volta colpisce soltanto lei. I corpi allora si scollano, la donna deve rimettersi al centro per potersi curare, nella consapevolezza che la cura di sé è necessaria, fondamentale anche per la cura dell’altro. Le nuove sale d’aspetto, così diverse da quelle in cui si si muoveva con la figlia, sono ora il luogo della solitudine più radicale. Il lungo tragitto verso l’ospedale, nella Roma deserta dell’alba, offre l’occasione di un rispecchiamento, il tempo dei bilanci: 
In quella città sfasciata e derelitta, io mi specchiavo. E nell’attraversarla mi pareva che la vita mi scorresse tutta davanti agli occhi, come dicono che succeda quando stai per morire. (p. 22) 
Non esiste nel volume una netta separazione tra le parti e i temi appaiono interconnessi, a livello tanto di strutturazione narrativa quanto concettuale. Come d’aria è un andare e venire attraverso il tempo, i sussulti del cuore, i risvegli della memoria. La malattia della madre affligge anche la figlia, così come la condizione della figlia determina in più modi, e a più livelli di profondità, l’esistenza della madre. Entrambe, malattia e disabilità agiscono dapprima come lente deformante dell’identità, di chi ne è portatore, ma anche di chi gli sta vicino. Serve un lungo percorso, di scavo dentro il proprio sentire, per andare oltre questa percezione. Ada si rende infatti conto che il suo stato di fragilità la porta a costruire una nuova forma di sintonia con Daria, e a riaffermare se stessa proprio nel momento in cui sente di stare perdendosi: 
Io sono il mio corpo, che accumula segni, ferite, cicatrici. Corpo che è il mio sigillo, testo che parla di me. “Nella malattia rivelo tutto il mio essere. Nella malattia cresco come un fiore, trovo la mia vera vita” ha scritto Franz Kafka. Il corpo mi guida, mi ispira, mi insegna. In lui – qualunque corpo sia – devo credere. (p. 86)
Il tema del corpo quindi, anche se deformato dal tempo o dalla malattia, viene letto nell’ottica di una nuova armonia. Ada D’Adamo, un tempo ballerina di danza classica, evoca a più riprese spettacoli o romanzi in cui viene esibita questa metamorfosi, in cui la difformità diventa arte, lo squilibrio nuovo equilibrio, espressione di una inedita forma di bellezza. Il corpo del malato di cancro è un corpo che si accartoccia, si contrae su se stesso, ma anche un corpo di cui ci si può riappropriare («che meraviglia il corpo che torna a parlare, che respira, esce dal suo doloroso silenzio e si mette a cantare e ti dice: io esisto, ci sono, sono qui», p. 109). Lo sforzo è continuo, nessun risultato può mai essere dato per acquisito. Nel fare esperienza di questa realtà mutata, che è tanto più dolorosa quando la si osserva dall’esterno, sottraendosi al flusso di abitudine che risucchia e ottunde, la madre comprende l’esperienza di sottrazione sensoriale della figlia, raggiunge con lei un nuovo grado di unione. Non è un caso, allora, che l’immagine di copertina mi ricordi, declinata al femminile, la michelangiolesca Pietà Rondanini – una madre che frana su un corpo di figlio che, pur accasciato, in qualche modo la sorregge. In questo caso, nell’abbraccio si intravede la delicatezza di una carezza sul viso, si intuisce il cercarsi dei corpi, più volte evocato all’interno della narrazione, così come una tracci di quella compenetrazione che ne è la chiave di volta.
 
Quando leggo il suo romanzo-memoir, Ada D’Adamo è mancata da poco. Saperlo non è indifferente, condiziona inevitabilmente la percezione. Nessun sentimento personale o afflato emotivo riesce però a confondere una verità nitidissima: la forza dirompente dell’opera, la qualità e la nettezza della scrittura, la lucidità e l’intelligenza con cui viene esplorato ed esposto il materiale narrativo.

Al contempo, Come d’aria è un’opera su cui è complicatissimo formulare un giudizio, perché si colloca oltre le abituali categorie di valutazione, le destruttura, le svuota di senso. Di un testo come questo non si può dire semplicemente che è bello (anche se lo è) o che è commovente (anche se lo è); che è disturbante, problematico, profondo, durissimo (anche se è tutte queste cose, e tutte insieme). C’è dentro una tale cifra di verità da rimasticare e digerire che non si può che sospendere la critica razionale per lasciar parlare gli organi, il corpo, che risponde alle parole di D’Adamo come a una chiamata.
 
 Carolina Pernigo