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«Questa è una dichiarazione di appartenenza. Ed è un’offerta alla terra»: "Custode della terra", le riflessioni sul paesaggio americano dello scrittore premio Pulitzer N.Scott Momaday

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Custode della terra. Riflessioni sul paesaggio americano
di N. Scott Momaday
Black Coffee edizioni, febbraio 2023

Traduzione di Laura Coltelli

pp. 87
€ 16 cartaceo
€ 8,99 (ebook)


Alle origini delle storie c’era la tradizione orale. Un legame che viene spesso fuori quando si parla di teoria del racconto, ricollegando la nascita della short story all’oralità, di cui molti elementi essenziali sono confluiti nella scrittura, modellati e mutati ma riconoscibili. Il legame con l’oralità e le proprie radici è qualcosa di intrinseco e indissolubile nella cultura dei nativi americani, mutata nel tempo e confluita in narrazioni scritte che portano ancora traccia evidente di quel legame. A partire dagli anni Settanta, con l’imporsi sulla scena letteraria di N. Scott Momaday (vincitore nel 1969 del Pulitzer con il romanzo Casa fatta d’alba, primo nativo americano a essere insignito del premio), assistiamo a quella che è stata definita la Native American Renaissance, entro la quale il discorso sulla cultura dei nativi, il rapporto con i bianchi nelle diverse fasi storiche e la riflessione su identità e appartenenza si intreccia a forme espressive diverse, dalla poesia all’arte figurativa, il racconto, il romanzo, il memoir.
Lo stesso Momaday rifletteva sulla cultura orale e la sua importanza fondamentale nella collection di saggi e racconti The Man Made of Words che copre un arco di trent’anni di studio, ricerca, scrittura e ben inquadra i capisaldi della sua indagine umana e letteraria, a partire proprio dal legame con le radici, la tradizione orale dei nativi e la connessione spirituale con il paesaggio.

Un legame quest’ultimo che rappresenta il centro nevralgico di un libretto appena pubblicato in Italia da Black Coffee, nella traduzione attenta di Laura Coltelli: Custode della terra (Earth Keeper: Reflections on the American Land, 2020) definito dallo stesso autore una sorta di «biografia spirituale»; un testo ibrido, a confine tra memoir e poesia, costituito di frammenti. Ci sono i ricordi e la memoria condivisa, le leggende della propria comunità, riflessioni personali, osservazioni, spunti, pagine intervallate da schizzi e disegni dell’autore. È celebrazione dell’essenza più intima della comunità nativa: il rapporto con la terra, con il paesaggio americano. Un legame strettissimo, intimo, spirituale, che è proprio della cultura dei nativi:
Come più volte detto dallo stesso scrittore, soltanto l’indiano può essere considerato l’interlocutore del paesaggio americano, avendo realizzato una irripetibile vicinanza con questa terra in trentamila anni o più di ininterrotta dimora ed esperienza del continente americano. (dalla prefazione a cura di Laura Coltelli, p. 10)
Le intenzioni che muovono la scrittura sono proprie di quel legame strettissimo, con cui apre Momaday:
Quando penso alla mia vita e alle vite dei miei antenati, sono inevitabilmente portato a convincermi che io, e loro, apparteniamo al paesaggio americano. Questa è una dichiarazione di appartenenza. Ed è un’offerta alla terra. (p. 19)
Appartenenza. Le parole sono scelte con molta cura e aprono a significati e implicazioni precisi. Autore di poesie, racconti, romanzi, saggi e testi per il teatro, Momaday compone la sua autobiografia spirituale per frammenti, immagini, riflessioni che guardano dentro e fuori da sé, protagonista assoluto il paesaggio americano, il sud Ovest della tribù-nazione Kiowa. Un paesaggio che prende forma nel suo aspetto: quello più selvaggio e incontaminato, le mutazioni e lo sfruttamento dell’uomo bianco. Ma è soprattutto un paesaggio spirituale, che si rivela per dualismi: vita e morte, natura e impronta umana.
È la fascinazione profonda per quel paesaggio-casa che custodisce una storia antica:
Mistero e ricchezza di significato in quel mio andare. Osservavo cose che altri avevano osservato migliaia di anni prima. La terra è un luogo di meraviglia e bellezza. (p. 36)
Ecco, “custodire”, altro termine fondamentale di questa narrazione: è per quel legame spirituale con la terra che il paesaggio americano si fa pulsante di vita, connesso con tutti i suoi elementi e l’uomo a esso. L’uomo, la cui impronta sul suolo è tanto profonda, oggi più che mai ne deve diventare custode.
Quando i nostri passi ricadono sulla terra sentiamo il fremito della vita sotto di noi, la terra sente il battito dei nostri cuori, e diventiamo tutt’uno. Non dobbiamo recidere noi stessi dalla terra. Dobbiamo intonare un canto al nostro essere, e danzare a tempo con i ritmi della terra. Dobbiamo custodire la terra. (p. 32)
Momaday non indugia nelle metafore o in immagini dal forte impatto per raccontare gli abusi dell’uomo sul paesaggio americano, ma la narrazione è attraversata da un fil rouge che si inserisce perfettamente nel dibattito contemporaneo su ambiente, ecologia, cambiamento climatico. È la riflessione su quello che resta del paesaggio, sull’eredità che consegneremo alle future generazioni e sul rispetto della terra come «valore umano fondamentale».
Consegnerò ai miei figli un’eredità della terra? O gli consegnerò meno di quanto io abbia avuto? (p. 60)
La terra, abusata, ma anche la terra espropriata a coloro che la abitavano e la custodivano. Impossibile ragionare sul paesaggio americano e la storia dei nativi senza pensare al passato violento che li contraddistingue. In questo testo specifico l’attenzione di Momaday è concentrata su altro, ma è una questione centrale nella produzione letteraria e nella cultura dell’autore, su cui negli ultimi anni si è aperto un dibattito in merito alla “rematriation” attraverso cui rimettere nelle mani dei nativi ettari di territorio che erano stati loro sottratti, oggetto anche di un saggio molto interessante pubblicato lo scorso anno sul numero di The Passenger dedicato alla California. Da qualsiasi prospettiva lo si guardi, il rapporto tra uomo e paesaggio americano è intrinseco della cultura nativa, come l’oralità si diceva all’inizio è parte integrante di una tradizione ricchissima.
Chiudo con uno spunto a proposito della rappresentazione culturale nel contesto nordamericano. N. Scott Momaday, Kali Fajardo Anstine, Richard Wagamese, Leslie Marmon Silko, Joy Harjo; o, ancora, Bryan Washington, Patricia Engel, Cristina Henriquez, James Baldwin solo per citarne alcuni: la cultura nordamericana non è mai stata solo bianca.

Debora Lambruschini