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"La memoria del cielo": nel romanzo più intimo di Paola Mastrocola si cuce e a volte si ricama il passato

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La memoria del cielo
di Paola Mastrocola
Rizzoli, febbraio 2023

pp. 272
€ 19 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)


I pezzi del passato stanno nella scatola tutti sparsi e li prendiamo a caso, li montiamo un po' come ci viene. Certo, attaccandoli in un modo o in un altro, cambia tutto. Ma ogni racconto è così: arbitrario, dunque falso. (p. 128)

È incredibile come agli scampoli di passato, a volte spezzati dal tempo, altre volte imprecisi per gli inganni della memoria, annodiamo tutto il presente e il futuro. Lo sa bene Donata Mancasciulla, la protagonista del nuovo romanzo di Paola Mastrocola, La memoria del cielo: come in un'autobiografia, è proprio lei, ormai adulta, a ripercorrere la sua infanzia. E lo fa con la delicatezza di chi si guarda indietro, reinterpreta momenti registrati nella memoria ma non compresi all'epoca, riannodando i fili in un gomitolo dai colori vivaci e, al tempo stesso, raffinati. 

Non è tanto la formazione di Donata a rappresentare il motore della narrazione; è piuttosto il nucleo familiare, quel piccolo mondo ristretto tra le mura domestiche, a farsi universo intero. Se contiamo che Donata nasce da Teresa e Vincenzo dopo anni di matrimonio, quando le speranze di avere un figlio stavano per scemare, non è difficile comprendere come quella bambina sia diventata il fulcro delle loro vite. Insieme al lavoro, sia chiaro. La famiglia, infatti, si regge sul lavoro di entrambi i genitori, che hanno iniziato a lavorare fin dalla più tenera età, prendendo le distanze dalle loro famiglie d'origine, a cominciare dalla scelta di cercare casa a Torino. Teresa è una sarta fin dalla prima adolescenza ed è brava e veloce: basta contare quante sono le signore che sfilano con i vestiti in prova nella sala di casa Mancasciulla. Tutta quella eleganza non ancora perfezionata, tenuta insieme con spilli e imbastiture, viene osservata dalla piccola Donata, tenuta a salutare le clienti della madre, andando contro alla sua estrema riservatezza. Quanto a Vincenzo, l'uomo lavora alla Fiat, dove è arrivato grazie agli studi da ragioniere che ha conseguito alle scuole serali, con grandi sacrifici: 

Mio padre diventò ragioniere. Quella parola se la ripeteva: ragioniere, ragioniere... Cantava e ballava, mentre la diceva, abbracciando alla vita mia madre, che non ne aveva voglia e si divincolava subito. Entrò alla Fiat Sezione Auto, impiegato in un ufficio che si occupava delle relazioni con i fornitori. Impiegato era una parola importante, allora, e non era necessario specificare esattamente: voleva dire non essere operaio. Quando andai a scuola e mi chiedevano cosa fa tuo padre, io rispondevo: l’impiegato, mettendoci fierezza. (pp. 35-36)
Nonostante questa fierezza, Donata non stringe mai un rapporto stretto col padre; lo osserva anzi da lontano, ne spia i piccoli vizi, che l'uomo si concede anche nei periodi di ristrettezze economiche. In particolare, Vincenzo non manca mai di regalare alla moglie «garofani, mai rose per dire, o margherite o tulipani», al punto da trasformare questi fiori in qualcosa di emblematico: «Per me sono rimasti i fiori dei miei genitori, il segno di quell'epoca: debiti e garofani» (p. 113). Debiti, sì, perché negli anni del boom economico i genitori di Donata decidono di "stringere la cinghia", come si dirà più volte, per comprare casa, un arredamento degno, elettrodomestici di marca, un'enciclopedia per la figlia. Rate, rate ovunque, da versare privandosi di tutto il superfluo. O meglio, di quello che mamma e papà ritengono tale, ma godendosi di tanto in tanto una deviazione rispetto alla strada maestra del risparmio:

Concedersi le cose inutili è come fare un passo laterale e andarsene per viottolini di campagna: certo che si abbandona la strada maestra che ci porterebbe dove dobbiamo andare, ma ne ricaviamo fiori e panorami che non avremmo mai visto. Anche i fiori e i panorami sono inutili? Può darsi.
È un peccato, però, non lasciare mai la strada maestra. (p. 119)
In questo tentativo di riscatto sociale, che costa tante rinunce a tutti, Donata fatica a capire se la sua famiglia sia povera o meno. Le sue giornate trascorrono accanto alla madre, che osserva cucire e ricamare con tutta la sua arte, e verso di lei nutre un attaccamento costante, quasi simbiotico. Non cerca altra compagnia, e anzi fatica a giocare con gli altri bambini al parco: molto più matura rispetto ai coetanei, Donata sente di dover in qualche modo "salvare sua madre" e di non potersi staccare da lei. Evasione che si concede, a dir poco catartica e quasi proibita, perché considerata "inutile" dalla madre, è la lettura, a cui si unisce la scrittura:  
Non importava se scarabocchiavo o scrivevo, e cosa scrivevo. Scrivere è prima di tutto il piacere di un gesto. E mi faceva sentire al mio posto. Ero il principe spodestato che torna e riprende possesso del suo regno. (p. 128)
In questo nuovo romanzo, Paola Mastrocola si misura con l'introspezione, arte in cui è sovrana, e lo fa con una narratrice che indugia sui ricordi, li rimescola e li giudica spesso, in frammenti metaletterari significativi:  
I nostri ricordi sono così ingannevoli? Imprecisi, addirittura sbagliati. Ce li portiamo tutta la vita dentro come se fossero la nostra più profonda verità, li raccontiamo come fossero tesori, e poi? Hanno la stessa sostanza della fantasia. Assomigliano alle storie che c'inventiamo, né più né meno. (p. 171)
Basta forse questo a renderci Donata una narratrice inaffidabile? Forse, ma in ogni caso non si altera la forza dell'omaggio alla sua famiglia e alla sua infanzia, in pagine ora commosse ora divertite, ora critiche ora grate. Su tutto il romanzo aleggiano l'eleganza e la raffinatezza di una scrittura sapiente, che sa come dosare il ritmo e come armonizzare azione e riflessione, ricordo e presente. 

GMGhioni