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Il "Sole amaro" delle promesse non mantenute: migrazioni e fallimenti nella banlieue parigina nel romanzo di Lilia Hassaine

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Sole amaro
di Lilia Hassaine
edizioni e/o, 2023
 
Traduzione di Alberto Bracci Testasecca
 
pp. 144 
€ 17,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)


Non è lungo, Sole amaro, eppure riesce a condensare in poche pagine trent’anni e tante vite. Si parla di migrazioni, di terre lasciate e terre trovate e perse, di identità frammentate, di sogni coltivati e infranti, della vita misera della banlieue, già incontrata in un altro romanzo – altrettanto denso – di e/o, Nulla si perde di Chloè Mehdi (recensito qui). Amaro è il sole che si leva in albe che non mantengono le promesse. Amari sono i presupposti, e amaro sembra destinato a essere il finale.
Per Said, che dall’Algeria si trasferisce in Francia per lavorare come operaio in fabbrica, far arrivare la moglie e le figlie rappresenta l’occasione di costruire una vita nuova, più benestante. Del resto lì vive già il fratello Kader, che ha sposato una donna francese, Ève, garantendosi un posto sicuro nella ditta del suocero e una bella villetta in periferia.
Per Naja, moglie di Said, la cognata rappresenta un’alterità irriducibile, ma anche la possibilità di un’amicizia, di una sorellanza: Ève è energia, bellezza, vita, sensualità, anticonformismo. Rappresenta il modello di un femminile diverso, libero, in grado di decidere per sé. Ecco perché, quando il marito la obbliga a cedere a Kader e Ève uno dei loro gemelli appena nati perché lo crescano come fosse loro, Naja non si oppone: il bambino, Daniel, vivrà in un ambiente agiato, avrà maggiori opportunità, sarà più seguito, più forte, forse più felice. Anche se questo comporta un dolore insanabile, una frattura per la madre, ma anche per il fratellino, Amir, più delicato e fragile. Il nucleo famigliare, d’altronde, fatica già a tirare avanti così, con tre figlie femmine e un unico stipendio, in un Paese che non è il proprio. Maryam e Sonia, le due maggiori, riescono in realtà quasi subito a sentirsi a casa, grazie alla scuola e alle nuove amicizie. Su di loro pesa però un destino già scritto, quello che porta la madre a trattarle bruscamente, sapendo già cosa le aspetta:
Non avrebbe mai voluto avere femmine, perché ne conosceva i tormenti. Nascere femmina voleva dire diventare la serva dei fratelli e poi del marito, non godere mai di alcun piacere se non quello del palato, e quindi ingrassare, ingrassare, ingrassare e rimanere incinta il più possibile, partorire senza chiasso e tenere a freno le proprie figlie, che a loro volta avrebbero riprodotto lo stesso schema. “La femminilità è una malattia ereditaria. Ci portiamo dietro le tare delle nostre madri e le rifiliamo alle nostre figlie” diceva spesso Michèle, la vicina. Naja era d’accordo. (p. 39-40)
Completamente differente rispetto alle sorelle è Nour, bellissima e selvatica, sfacciata e sempre più seducente col passare degli anni. Nour gioca a calcio con i maschi, respinge la madre a cui non vuole assomigliare e cresce covando una rabbia viscerale e profonda verso la sua famiglia, troppo arrendevole, troppo mite, e verso la Francia, che continuamente li isola, li umilia, li fa sentire estranei:
Dentro di sé sentiva una rabbia assurda, una rabbia che chiedeva solo di esplodere ruggendo. Quello era il nero dei suoi occhi, il padre che piegava la schiena al lavoro e per strada, che ordinava ai figli di non fare mai rumore, di non farsi notare, di non farli vergognare, di camminare rasentando i muri. (p. 72)
Sole amaro è un romanzo affollato di donne, in primis Naja e Ève, ma anche le figlie, le amiche, le vicine di casa. Ciascuna di loro cerca una propria via per definirsi, ma si scontra contro barriere invisibili e radicate. E poco importa che si prepari, e poi si attraversi e si superi il ‘68, che garantisce una liberazione (spesso illusoria) alle sole donne borghesi, non certo a quelle delle case popolari, costrette a spaccarsi la schiena, veder fallire o morire i propri cari, definirsi troppo spesso in funzione degli uomini che le circondano e comandano.
Sarebbe errato però leggere l’opera solo nell’ottica del femminile. Said e Kader, Daniel, Amir, il vicino di casa Miloud, sono tutti ugualmente fondamentali nel ritrarre attraverso le generazioni il problema di un’integrazione riuscita con fatica, e solo parzialmente. Lilia Hassaine coglie in maniera molto precisa la complessa condizione dell’immigrato, che si trova diviso tra due mondi, costituzionalmente incapace di conciliarli in un’identità unitaria, e ormai estraneo tanto al paese d’arrivo quanto a quello di partenza.
Oscillava tra due paesi e due progetti di vita, e cresceva i figli nella stessa duplicità. La duplicità in quanto identità era già una contraddizione, non esisteva una parola per dire uno e due insieme. Il linguaggio non ce la faceva a descrivere la sua realtà. Così, di fronte al fallimento della lingua, si vedeva rispedito alla sua estraneità: agli occhi dei francesi era l’immigrato, e anche in Algeria era diventato l’immigrato […]. La gente non ne vuole sapere di colui che arriva, ce l’ha con chi se ne va, lo considera appartenente a un altrove, a uno spazio da tenere a distanza. Non essere “uno” significa venire sospettato di doppiezza. (p. 61)
Il tema della duplicità, della spaccatura interiore riflessa dalla società, delle opportunità offerte agli uni e negate agli altri viene sviluppato nel romanzo attraverso le vicende dei due gemelli separati alla nascita, che crescono vicini, da cugini, ma in realtà vedono dispiegarsi davanti a loro vie divergenti. Al contempo, la loro sorte consente di esplorare due modelli famigliari contrapposti: da un lato quello rappresentato da Said, portatore di valori tradizionali, padre padrone inasprito dalla vita, dominatore e violento, che impone alla moglie, alle figlie e all’unico figlio maschio, considerato deludente per la sua fragilità, il suo volere assoluto; dall’altro la coppia mista di Kader ed Ève, che si incontrano nell’amore e nel compromesso, rovesciano gli stereotipi culturali, e educano Daniel a una vita diversa, più borghese, con orizzonti più ampi, in cui il singolo può essere libero di autodeterminarsi (“Quando il desiderio è insopprimibile la soddisfazione è grande. […] L’unico mezzo per costringere un uomo era la libertà”, p. 56).
Anche in questo caso, tuttavia, le previsioni sono destinate a essere spazzate via dalla realtà: più forte del contesto è infatti il richiamo del sangue. Daniel è felice solo quando torna a casa di Naja, quando si riunisce a suo fratello. I due sono perfettamente complementari: tanto l’uno è aitante, impulsivo, irruente, tanto l’altro è delicato, sensibile, studioso. Di fronte alla ruvidezza del padre, degli altri uomini della famiglia, Amir rappresenta la speranza di un futuro differente, di una nuova mascolinità. Lui ha ben chiaro che il suo riscatto deve passare attraverso il sapere, la distinzione intellettuale.
Anche lui faceva a botte, ma in un altro modo. Aveva promesso a se stesso che avrebbe avuto le stesse opportunità di Daniel, che un giorno avrebbe frequentato le stesse scuole prestigiose alle quali era destinato il cugino. […] L’unico tramite fra gli uomini è la cultura. (p. 98)
A scombinare le carte ci pensa però la storia. Il percorso dagli anni ‘60 agli anni ‘80 è quello che va dal sogno dei padri alla disillusione dei figli, dall’illusione di un riscatto attraverso il lavoro al brusco risveglio della crisi economica, dall’utopia di una collaborazione fruttuosa tra le classi sociali all’allargarsi progressivo di un divario ineludibile, incarnato proprio dai grandi casermoni popolari delle periferie che avevano inizialmente dato voce alle speranze di tutti:
Facevano parte della classe dei diseredati, quelli i cui stessi alloggi sono un invito ad andarsene. Avevano la sensazione di vivere in un lazzaretto, in un’isola per appestati. Nessun parigino si avventurava mai nella loro banlieue, ma meno i parigini ci andavano e più la distanza tra i due mondi si scavava, circondata da timori, fantasie e paura. Loro stessi tiravano in lungo la notte per non tornare a casa. (p. 108)
Per i figli della banlieue, i cittadini rinnegati, il passaggio degli anni comporta la perdita definitiva dell’innocenza, e quindi lo sprofondare in abitudini sbagliate, criminali o autolesioniste, viste come l’unica soluzione possibile, l’unico modo per sopravvivere. La morte serpeggia nell’eroina venduta e comprata, nelle siringhe scambiate, in un morbo innominabile che serpeggia e distrugge, negli occhi inariditi delle madri che non sono riuscite a salvare i propri nati, né il germe di comunità costruito tanto faticosamente e presto abortito.
All’autrice di questo romanzo va il merito di aver composto un’opera di grande intensità, in cui l’esiguo numero di pagine non implica né fretta, né superficialità. C’è, anzi, la capacità di guardare con uno sguardo umanissimo a tutti i personaggi, di coglierne in pochi tratti i caratteri e le contraddizioni. C’è poco spazio, è vero, per seguirne le vicende, e di alcuni si vorrebbe sapere di più, si vorrebbe seguirli più a lungo. La scelta di un preciso segmento cronologico ci dice però che protagoniste non sono solo le esistenze individuali, quanto piuttosto un movimento collettivo attraverso il tempo e lo spazio.
Si diceva all’inizio che, oltre al sole, e date le premesse, nel romanzo di Lilia Hassaine sembra destinato a essere amaro anche il finale. Non è invece così, non del tutto almeno, perché una speranza rimane, nel momento in cui qualcuno, con più forza o più risorse, o forse solo più fortuna, riesce a rimettere insieme i lembi lacerati della propria identità, a guardare indietro con consapevolezza per potersi poi rivolgere in avanti, verso un futuro che rimane comunque fuori da queste pagine.

 
Carolina Pernigo