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Se "nulla si perde", che cosa resta? La durezza della banlieue nel romanzo di Cloé Mehdi

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Nulla si perde
di Cloé Mehdi
edizioni e/o, 2020

pp. 287
€ 18,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)

Titolo originale: Rien ne se perd
Traduzione di Giovanni Zucca
 

È una vita devastata e amara quella di Mattia, che a undici anni ha già perso tutto. Il padre, educatore in un centro sociale, è crollato sotto il peso della propria impotenza di fronte alla miseria e alla violenza della banlieue, e si è suicidato nella cella di un ospedale psichiatrico. La madre l’ha rifiutato con parole pesanti come una sentenza: “Non ce la faccio più più a vivere con te, Mattia” (p. 74). Per tenere lontano il dolore, Mattia ha costruito intorno a sé una barriera di cinismo e di ostentato disinteresse: “mi sono preparato ad affrontare il peggio, e il peggio non ha potuto entrare dentro di me, avevo già costruito una parete indistruttibile tra me e lui, tra me e gli altri, tra me e il mondo” (p. 34). Per questo ripete che nulla lo tocca, che non tiene a nessuno, anche se in realtà a Zè, il suo tutore, vuole bene, a suo modo. Perché Zè ha ventiquattro anni, ama i poeti, e non si è ancora arreso. Lo ha preso sotto la sua ala, anche se spesso si rivela inadeguato. Non ha ancora capito, lui, quello che a Mattia invece è già ben chiaro: che “non cambia nulla, tutto si ripete senza tregua. Nulla si perde, nulla si crea. Tutto si trasforma e sempre nello stesso modo, e soltanto per un po’” (p. 42).
Nel mondo di Mattia si muovono altre vite fragili e spezzate, con poche speranze di redenzione. Prima fra tutte Gabrielle, che non riesce a trovare un senso per il suo stare al mondo, non riesce a fuggire dal malessere che la attanaglia, dalla “terribile angoscia di non sapere se è viva o no” (p. 45), e non sopporta più di doversi giustificare. Come Zè, come Mattia, anche lei è malata di solitudine e di silenzio, solo che lei non vuole guarire, perché in quella solitudine, in quel silenzio, ritrova la sua dimensione esistenziale. Nessuno di loro “sa bene come sopravvivere” (p. 70) e Mattia capisce troppo presto che anche gli adulti, quelli che dovrebbero essere punti di riferimento, si dibattono in preda alla stessa sofferenza, solo che il più delle volte la nascondono dietro una facciata di compostezza.
Quando due uomini ambigui (forse poliziotti, forse criminali) iniziano a interessarsi di loro, a seguirli e a fare domande in giro, l’equilibrio precario in cui i protagonisti già si destreggiano subisce una forte scossa. Soprattutto perché, negli stessi giorni, sulle pareti della città iniziano a ricomparire graffiti, subito cancellati, che ricordano un volto ben noto. La domanda inizia a scorrere sotto la superficie, e poi si fa più palese: cosa c’entra con loro la morte di Said Zahidi, ucciso quindicenne da un poliziotto molti anni prima?
È stata proprio la morte di Said a innescare nel padre di Mattia i primi segni di squilibrio, e ora il figlio ripensa spesso all’ingiustizia mai pagata. Il sangue innocente continuamente versato urla e chiede la sua vendetta dai sobborghi in disfacimento, dalla miseria che li abita. Nel ritratto durissimo che propone Mehdi, le istituzioni sono sorde e cieche, la giustizia ineffettuale, la polizia implicata. Quello che lo Stato pare bravo a fare è porre etichette, imbrigliare il disagio degli individui in griglie che vanno dal delinquente al folle, ovvero colui che merita di essere rinchiuso allo Charcot, ospedale psichiatrico da cui nessuno esce (se ne esce) restando se stesso. L’idea stessa di famiglia è inquadrata rigidamente in canoni da commedia americana o pubblicità delle merendine, e nessuno contempla la possibilità che anche un gruppo disomogeneo, vacillante, come quello costituito da Mattia, Zè e Gabrielle possa offrire ai componenti una qualche forma di affetto o sostegno reciproco. Lo scenario sociale sembra dominato da un implacabile determinismo da cui non si può sfuggire: “È così che funzionano le cose, Mattia. La giustizia ai giudici. La violenza ai poliziotti. La salute ai medici. I matti al manicomio, e che non ti venga in mente di sceglierti un posto che non è il tuo” (p. 188).
Anche se sono passati quindici anni, anche se tanti hanno dimenticato, la storia di Said avvelena l’aria di quel che resta del quartiere popolare di Les Verrières, ormai destinato a un progetto di riqualificazione urbana e alla costruzione di case borghesi per coppie benestanti. Sempre più si configura l’opposizione di un noi/voi e di un loro, gli impuniti, quelli che stanno dalla parte del potere e hanno dimenticato la funzione originaria del proprio compito.
Cos’è che volete? Ristabilire l’equilibrio? [...] Se non state al gioco ve la faranno pagare, e con tanto di interessi. Loro possono barare, voi no, e nessuno ha detto che era giusto. (p. 10)
L’autrice, che con questo volume ha ottenuto in Francia diversi riconoscimenti, racconta la storia, assumendo il punto di vista di Mattia, attraverso una prosa asciutta, senza abbellimenti, inesorabile. C’è, nelle parole del bambino, una disperazione, una rinnegata sete d’amore che toglie il fiato. Il lessico prevalente è quello della disgregazione, del disfacimento, dell’assenza di speranza nel cambiamento. Eppure qualcosa resiste, perché Mattia è intelligente, pieno di risorse, ha accanto persone che gli vogliono bene, seppur in modo fallibile e imperfetto, ma soprattutto inizia a fare i conti con la verità della propria esistenza e ad accettare quello che gli è dato, così com’è, con tutto il fango che lo circonda.
Alcuni capitoli, uscendo dalla focalizzazione interna e concentrandosi sulle vicende dei comprimari, permettono progressivamente di ricostruire la complessità del quadro generale che circonda l’uccisione di Said, di tratteggiare il profilo di un progetto di vendetta che allunga i suoi tentacoli attraverso il tempo. Se non è facile trovare speranza in questo libro, che racconta le difficoltà della pace sociale, soprattutto in contesti in cui l’integrazione non è pienamente riuscita ed esistono importanti squilibri nei rapporti di forza e nella tutela dei diritti, la lettura è comunque necessaria per le domande che solleva. Soprattutto quella fondamentale, che interroga senza pregiudizi il nostro vivere, la nostra consapevolezza etica, la solidità (o al contrario la fragilità) delle nostre scelte. Perché se ha ragione Mattia, se nulla cambia, se nulla si perde, è tanto più importante chiedersi che cosa resta.
 
Carolina Pernigo