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«La traduzione è un cantiere che non dovrebbe chiudere mai»: il progetto monumentale di Mattioli, ritradurre l'opera di Dickens. Intervista al curatore Livio Crescenzi

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«Demusealizzare Dickens»: è questo l'intento con cui parte l'ambizioso progetto portato avanti da Livio Crescenzi per Mattioli 1885 che, iniziando da Il circolo Pickwick, intende ritradurre tutte le opere del genio inglese seguendo l'ordine cronologico della pubblicazione originale. Un progetto notevole, che ha subito stuzzicato la nostra curiosità. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con il traduttore Livio Crescenzi, da cui sono sorte molte riflessioni interessanti. 

Come si sviluppa il suo rapporto con la casa editrice Mattioli? La sua peraltro è una biografia assai intrigante!
Il mio rapporto con la casa editrice Mattioli 1885? Un rapporto esclusivo, totalizzante, per me. Un’identificazione completa, un senso d’intrapresa comune, un atelier, o, meglio, una bottega d’altri tempi, dove si lavora insieme, si discute, qualche volta ci si accapiglia e si battibecca, ma dove si ride pure. Non sono quindi un traduttore su commissione, ma un tarlo della casa editrice, e lì ci vengono idee, sogni, ambizioni. Per quanto mi riguarda solo per autori classici belli che morti e seppelliti da almeno una settantina d’anni. Tanto che spesso mi chiedo se sarei più in grado di tradurre uno scrittore contemporaneo e per giunta vivente. Sa, con i morti ho sempre ragione io, alla fine. Quanto al legame con la Mattioli 1885, le racconto solo un aneddoto: in casa editrice, quando dalla redazione sentono Paolo Cioni, il proprietario e il direttore editoriale, parlare al telefono tra grandi esplosioni di risate, si dicono: “Sta parlando con il Crescenzi”. Quanto alla mia biografia. Dopo un passato quarantennale da architetto-topografo-archeologo tra Medio Oriente, Africa Orientale e Centro America, ma sempre con i libri in testa, tanto da aver tentato a mia volta di fondare una casa editrice, la Crescenzi Allendorf di beata memoria, per uno di quei casi della vita, dopo aver tradotto per me stesso L’ammutinamento della Elsinore di Jack London, un giorno alzai il telefono pronto a fare una lunga serie di telefonate. E invece, di telefonate ne feci solo una, quella, alla Mattioli 1885, e d’allora non abbiamo più smesso di telefonarci. Prima l’avventura era iscritta nell’orizzonte del Medio Oriente e dell’Africa, Orientale. Da quel giorno l’avventura si è iscritta solo nell’orizzonte della Mattioli 1885 e dei libri che facciamo come degli artigiani d’antan.

Il progetto avviato da Mattioli con Il circolo Pickwick è importante e ambizioso: tradurre integralmente tutte le opere di Dickens, seguendo inoltre lo stesso ordine con cui furono pubblicate all’epoca. E la traduzione è stata affidata a lei, Livio Crescenzi, che curerà tutte le traduzioni. Qual è l’approccio con cui si è avvicinato a questo progetto?
Diciamo, se è possibile per uno sciagurato traduttore e per i lettori più avventurosi l’intento è di ripercorrere passo passo come dei segugi il lungo cammino compiuto da Dickens dalla sue prime opere giovanili a quelle della piena maturità e della piena consapevolezza espressiva e stilistica. Come si trasforma la sua lingua, come si arricchiscono i temi, come si costruiscono in modo sempre più articolato personaggi e trame? Con l’intento inoltre di ricostituire la stessa bottega di lavoro che creò Dickens con le sue riviste letterarie pubblicate per vent’anni, insieme a dei giovani anglisti chiamati a far parte con me di questo progetto, seguito redazionalmente dall’inizio alla fine da Chiara Voltini, il filo d’Arianna dell’intera iniziativa e lei stessa traduttrice per alcuni volumi, come per esempio il terzo, Nicholas Nickleby. Insomma al posto del cervello di Dickens, un vero atelier.

Quali sono nella sua esperienza di traduttore le maggiori sfide, linguistiche e/o strutturali, insite nell’opera di Dickens?
Dunque, dunque... Le maggiori sfide? Mi chiede... Direi subito: demusealizzare Dickens! E sì perché sin troppo spesso nelle traduzioni italiane così letterarie e forbite d’un tempo si fa strage, tra le altre cose, dei registri verbali di cui Dickens fa volentieri un uso spregiudicato e assai audace, come nemmeno Joyce: dalla parlata addirittura esoterica dei postiglioni londinesi delle diligenze di posta, vera aristocrazia delle genti meccaniche (Circolo Pickwick), al gergo stretto della malavita più abietta (Oliver Twist), al grumo al limite dell’indecifrabile di contrazioni fonetiche (per esempio la parlata della gente dello Yorkshire in Nicholas Nickleby), e così via. Insomma, l’intento di questa iniziativa, dunque, è proprio quella di demusealizzare l’opera di Dickens, di togliere via la polvere che si è andata accumulando nei decenni sulle spalle dell’incolpevole scrittore a causa di traduzioni ingessate e accademiche, che spesso giocano a rifare il verso alla prosa pur sempre vittoriana dello scrittore. Perché troppo spesso ci si dimentica che Dickens, è ovvio, scriveva per i suoi contemporanei, secondo quindi degli stilemi vittoriani dell’epoca, ma di certo non faceva mica il verso a sé stesso!


Livio Crescenzo.
Foto di Gari Williams
Che questo progetto sia notevole l’ho già detto, così come credo sia chiaro il mio entusiasmo di fronte alla possibilità di rileggere Dickens in nuove, attente, traduzioni: per quanto eccellenti, alcune di quelle del passato soffrono un po’ il peso dell’epoca in cui erano state scritte e quell’italiano aulico a tratti stride con il testo dickensiano, la sua semplicità, la polifonia, la modernità. Che cosa ne pensa? Si è confrontato con le traduzioni precedenti? Quanto è importante secondo lei rivedere a distanza di tempo le traduzioni, anche di classici che sono ben saldi nel nostro immaginario collettivo? Ricordo per esempio qualche anno fa la sterile polemica sulla nuova traduzione de Il giovane Holden...
Mi chiede quanto, secondo me, sia necessaria una simile iniziativa. Mi basta ricordarle che ancora oggi l’edizione Einaudi di Oliver Twist è quella, peraltro, inappuntabile e per certi versi ammirevole, di Silvio Spaventa-Filippi che, però, è pur sempre del 1919. E quindi eseguita con i soli strumenti dell’epoca, per cui assai più svantaggiato rispetto a un traduttore di oggi che trova a portata di mano in internet repertori linguistici, strumenti lessicali, commentari di grande accuratezza filologica, collezioni di varianti, ecc., sconosciuti all’epoca o di difficile reperimento. Si consideri inoltre che le traduzioni di Spaventa-Filippi sono tutte scritte in un forbitissimo italiano letterario e fiorito, quanto di più lontano oggi dalla nostra sensibilità e di meno dickensiano si possa immaginare. Traduzioni addirittura eroiche, quelle di Silvio Spaventa-Filippi, per carità, ma che hanno segnato un solco da cui ritengo che sia ora discostarsi. Pensi che il titolo del quarto romanzo, La bottega dell’antiquario, lo inventò proprio Spaventa-Filippi, e da lì nessuno più se n’è discostato, ma... The old curiosity shop, il titolo originale: antiquario è un termine troppo alto, diciamo, secondo la nostra sensibilità. Insomma, si tratta piuttosto di una bottega, o meglio un antro, pieno di anticaglie arrugginite, grottesche, spesso mostruose... Quindi, ritengo, sì, che periodicamente soprattutto i grandi classici vadano ritradotti. La traduzione è un cantiere che secondo me non dovrebbe chiudere mai: chiude mai la bottega della letteratura e quella della fucina di una lingua?

Narratore onnisciente, critica sociale, lunghe divagazioni, ricchezza lessicale e narrativa: sono alcune delle caratteristiche ricorrenti nell’opera di Dickens, che lo inquadrano anche perfettamente nell’epoca entro cui si sono sviluppate le opere. Eppure, allo stesso tempo, nonostante siano lontanissime dalle tendenze contemporanee, continuano ad affascinarci. Qual è a suo avviso la ricezione dei testi dickensiano da parte del lettore italiano?
Quanto ai lettori italiani, cosa posso dirle? Questo solo: che in casa editrice stanno arrivando numerose lettere piene d’entusiasmo e aspettativa. Al povero traduttore sciagurato, umilmente, già questo basta. Quale possa essere poi la “ricezione” che dirle? Le racconto solo un aneddoto che, secondo me, la dice lunga. Alcuni anni fa stavo sulla metropolitana in un’ora di punta, e vedo un uomo di una certa età, evidentemente un operaio data la tuta, intento a leggere un grosso libro. M’incuriosisco perché è già difficile vedere un uomo leggere su un mezzo pubblico, e quel tipo non sembrava affatto il tipo. Guardo e vedo che il libro è Giacca bianca di Melville, tradotto da me sempre per la Mattioli. Un volume scomparso dai cataloghi dagli anni cinquanta, difficile, impegnativo, Melville in metropolitana! Mi avvicinai, e gli chiesi: “È bello?” “Bellissimo, l’avevo tanto cercato, dopo aver letto Moby Dick.” La “ricezione” mi chiede: un miracolo piuttosto glorioso e misterioso, ecco.

L’impronta di Dickens nella letteratura vittoriana è ben nota, ma secondo lei perché la sua opera riesce a trascendere il tempo e lo spazio? Che cosa c’è in questi romanzi che continuano a intrigare i lettori? In che modo i suoi testi sono in dialogo ininterrotto con la contemporaneità?
Rispondere a questa sua domanda... uno sciagurato traduttore rischierebbe di comporre un centone si sentenze e massime, o di borborigmi accademici altrui, che risparmio ben volentieri a lei, ai suoi lettori e persino a me stesso. Io sono un umile operaio della parola, un liutaio della parola, pago di fare un servizio di “mediazione” – fatto con passione, scienza e coscienza, questo posso assicurarlo – ma non sono in grado di andare oltre. Il liutaio non suona il bel violino che ha costruito, ma lo affida al violinista, quindi... Agli studiosi rispondere alla sua domanda così dotta e complicata, non a un umile liutaio. Al quale non viene altro che rispondere in merito alla sua domanda che anche lui, come Anthony Burgess, sotto sotto pensa che «Dio creò il mondo per consentire a Dickens di raccontarlo». Il che mi sembra già un’affermazione più che sufficiente.

Quale delle opere dickensiane è la sua preferita? E quale consiglierebbe (e perché) a un lettore che si avvicini per la prima volta a questo autore?
Come diceva mi pare Ungaretti, la donna da lui più amata era l’ultima di cui era al momento innamorato. Quanto poi ai consigli eventuali da dare a un lettore, cosa risponderle? Non consiglierei mai a nessuno la persona di cui innamorarsi. Ognuno si scelga i propri amori da solo, secondo le proprie inclinazioni, i propri talenti e i propri vizi, e per giunta volta per volta li tradisca pure! Le grandi opere non sono gelose e amano essere insieme, prese, abbandonate, riprese ancora e tradite di nuovo. Non sono noiosamente miopi come gli essere umani.
E quanto a un consiglio... A questo proposito le racconto un aneddoto. Dunque, un uomo ordina un braccialetto per la sua amante. Per errore glielo recapitano a casa, dove la moglie lo scopre... Sembrerebbe l’argomento di un romanzo già letto e riletto, eppure è proprio quello che accade a Charles Dickens. E sì, la stessa vita sentimentale e coniugale (se mai le cose siano andate insieme, in merito alla quale il caustico Jonathan Swift era più che spietatamente scettico), la vita sentimentale e coniugale di Dickens, dicevamo, fu alquanto movimentata... I primi anni di matrimonio con Catherine Hogarth furono apparentemente felici. Dickens era innamorato della giovane moglie e lei era orgogliosissima della fama del marito. Dopo il viaggio in America che la coppia aveva fatto insieme nel 1842, Georgina, la sorella di Catherine, andò a vivere con loro in quanto Catherine iniziava a essere sopraffatta dai doveri che le derivavano dall’essere moglie di un uomo famoso e madre di ben dieci figli. Nel frattempo lo scrittore diveniva sempre più insoddisfatto di Catherine e del matrimonio. Accusava il fatto di avere una famiglia così numerosa da mantenere (cosa della quale in qualche modo attribuiva alla moglie la responsabilità!...). Non approvava la mancanza d’energia di Catherine e iniziò a lamentarsi che la moglie non era mai stata una donna alla sua altezza dal punto di vista intellettuale. Nel 1857 Dickens incontrò la donna che sarebbe stata la compagna fino alla sua morte, la giovane attrice Ellen Ternan. Dopo l’incontro con Ellen, la vita con la moglie sembrò a Dickens ancora più insopportabile, come scrisse all’amico John Forster: «Povera Catherine, lei e io non siamo fatti l’uno per l’altra, e ormai non c’è più̀ niente da fare. Non è solo lei a rendere infelice e angustiato me, ma anch’io lei... e anche molto di più̀». Nella primavera del 1858 si verificò l’incidente del braccialetto che Dickens aveva acquistato come regalo per Ellen ma che per errore fu recapitato alla moglie, la quale accusò il marito di avere una relazione. Dickens ovviamente negò l’accusa... Quindi, semmai, l’unico consiglio che mi sento di dare ai lettori è quello di stare molto attenti con i loro regali... alle e agli amanti! Dickens insegna...

Intervista a cura di Debora Lambruschini. Ringraziamo Livio Crescenzi e la casa editrice Mattioli per la disponibilità 

Foto inserita con l'autorizzazione della casa editrice.