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«Forse la vita è un bambino che torna da scuola»: di identità, straniamento, distanze. Un romanzo teso fra Iran e Germania: "Sedici parole"

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Sedici parole
di Nava Ebrahimi
Keller editore, 2020

Traduzione di Angela Lorenzini

pp. 336
€ 18 (cartaceo)
€ 13,99 (ebook) 


Ho sempre pensato che la lettura non sia davvero un’attività solitaria. Non parlo di certi raduni che oggi paiono andare tanto di moda, non mi riferisco alla fruizione specifica del libro – quella per me sì che rimane attività solitaria da svolgersi secondo i propri tempi e modalità – ma a tutto quello che viene dopo, quando abbiamo girato l’ultima pagina. Non mi sembra davvero di aver letto e assimilato un libro fino a quando non mi confronto con qualcuno del mio circolo di lettori, nella vita reale od online. Perché è lì, nel confronto, in quello scambio prezioso che avviene se si ha la fortuna di essere circondati da altri lettori curiosi, che il libro mi pare prenda vita davvero, si sveli mediante il racconto che ne faccio con gli altri, attraverso sguardi diversi dal mio. Per certe storie è quasi un passaggio essenziale, per comprenderle nella loro ricchezza, per riannodarne i fili della narrazione, per avvertire i diversi gradi di penetrazione di ciò che raccontano. Come per Sedici parole, romanzo d’esordio della scrittrice iraniano-tedesca Nava Ebrahimi che ho letto e ampiamente discusso con il mio amato gruppo di lettura; ognuno di noi ha apportato qualcosa nella lettura e alla fine mi si è composto davanti agli occhi un mosaico molto più ricco di quanto inizialmente avrei pensato.

Pubblicato in Italia da Keller nella traduzione di Angela Lorenzini, Sedici parole si colloca perfettamente nel catalogo di un editore che fin dalla nascita guarda alla letteratura mitteleuropea e «alle tematiche dei confini», come riportato sul loro sito stesso. Confini non soltanto intesi in termini politici ma qualcosa di più profondo, intimo e umano, che si intreccia al discorso sull’identità. Ed è proprio questa, identità, la parola chiave con cui entrare nel romanzo di Ebrahimi, cuore della narrazione e ancor di più della riflessione che comporta. Mediante la narrazione in prima persona, l'autrice compone una storia tra Iran e Germania, tesa tra passato e presente, e attraverso la voce della giovane protagonista Mona far confluire sulla pagina le lacerazioni dei tanti divisi tra luoghi e culture differenti, lo straniamento, le distanze, i vuoti, la diffidenza:
[…] e finalmente viene chiamato il mio nome, e il mio primo pensiero è che appartiene a questo posto, il mio nome. Mona Nazemi. È la prima volta che vengo chiamata, e il mio nome non dà nell’occhio, non è diverso da tutti gli altri. (p. 127)
Nata in Iran ma ancora bambina emigrata con la madre a Colonia, Mona si appresta ora a tornare nella terra d’origine della sua famiglia per il funerale dell’amata nonna; quello che sarebbe dovuto essere un soggiorno di pochi giorni diventa invece un tempo più lungo, necessario per rimettere insieme i pezzi della propria esistenza, nel tentativo di colmare i vuoti della storia famigliare e, forse, fare i conti con i propri sentimenti. Verso l’Iran, verso la sua identità in Germania, verso se stessa.
Ma dove sentirsi davvero a casa? A Colonia il suo nome e i suoi tratti la rendono estranea, in Iran la assale una forma diversa ma comunque lacerante di estraneità:
[…] per poi rendermi conto, in un secondo di paura, che in Iran io non sono tedesca, ma iraniana. Proprio in Iran, dove mi sento tedesca come in nessun altro luogo. (p. 127)
Tesa tra due mondi e due culture, lo straniamento di Mona è lo stesso di chi come lei ha perso le proprie radici e non sa dove farne crescere altre. Ma il ritorno in Iran per l’ultimo saluto a maman bozorg solleva anche le numerose questioni rimaste in sospeso per tutto quel tempo, i segreti che la nonna ha caparbiamente custodito per tutta la vita, le parole che mancano. Ecco, le parole, sono un altro perno fondamentale di questa storia: le sedici parole persiane che riaffiorano e invadono ogni cosa, colmano vuoti e silenzi, definiscono sentimenti e identità.
All’inizio fu una sola. Una parola che, agile e svelta, mi assalì, come poi tutte le altre sedici, dopo un’imboscata. Non riuscivo a difendermi, le parole tornavano sempre di nuovo a impormi il loro messaggio: qui c’è ancora un’altra lingua, la tua lingua madre, non credere che quella che parli sia davvero la tua. (incipit, p. 11)
Sedici parole, sedici capitoli e innumerevoli altri spunti, storie. Sono molteplici le tematiche affrontate qui da Ebrahimi, di cui la riflessione su identità e radici i due perni principali intorno a cui ne scaturiscono altre, a partire dal rapporto con la madre, i suoi ostinati silenzi, la rinuncia, la distanza. Arrivata in Germania giovanissima, presto separata dal marito che aveva sposato quando era solo una bambina – e non è affatto un modo di dire – la solitudine, le parole non dette e i segreti condivisi. Mite, distante, così diversa invece dalla sua di madre, carnale, appassionata, ingombrante. E lei che, scopriremo poco alla volta, ha intrecciato i fili delle loro esistenze.
Ho sempre avuto la sensazione di dovermi occupare di lei, e non è mai stato un problema. Ma ora che maman bozorg non c’è più e noi due siamo sole, la cosa mi spaventa. (p. 253)
Preoccuparsi per lei, come fosse una bambina, i ruoli invertiti; ma è soprattutto la distanza a colpire nella caratterizzazione del loro rapporto, i silenzi dietro cui la donna si trincea, la verità taciuta. Quanto poco conoscono l’una dell’altra. Ma anche chi Mona crede di conoscere, la donna di cui strofina vigorosamente la pelle durante il bagno, quella nonna tutt’altro che parca di parole e di gesti, si è nascosta dentro bugie che hanno finito per sembrarle la verità.

La vita di Mona appare sospesa come i frequenti viaggi tra due mondi tanto distanti, mai davvero parte dell’uno o dell’altro; straniera in patria, estranea a casa. Non c’è spazio nemmeno per i rapporti, che restano effimeri, superficiali. Anche quelli che potevano diventare qualcosa di più vero.
[…] seduta sul davanzale con la tazza di caffè in mano, guardando il color grigio dopoguerra della parete della casa di fronte, avrei potuto dirgli che mi mancava. Ma i miei sentimenti si perdevano in volo da qualche parte nello spazio aereo tra l’Iran e la Germania. (p. 177)
Un vecchio amore mai davvero finito è lì ad aspettarla anche in questo viaggio e attraverso lui interrogarsi su se stessa e la propria famiglia, fino a porsi quelle domande scomode che per tutta la vita l’hanno tormentata. Perché come può una figlia venire a patti con il matrimonio di una madre appena tredicenne? Quanta violenza c’è stata dietro il suo concepimento, con quell’uomo più vecchio di lei, che era appena una bambina? E, ancora, come ha potuto la nonna, una madre, acconsentire a quell’unione fin dal principio segnata dalla rovina? Ora che il padre non c’è più – se mai davvero c’è stato, figura sfumata nelle loro vite – , le parole che mai sono bastate per affrontare la complessità di certi nodi irrisolti, resta solo sua madre per rintracciare sé stessa.

La fatica di integrarsi in Germania, la distanza che la separa dagli altri anche quando è in Iran, un Paese in cui il suo aspetto è conforme al resto delle persone, ma nel quale non può dire di riconoscersi davvero. Sullo sfondo, i mutamenti di un Paese sempre attraversato dalle tensioni, la rivoluzione del 1974, l'oppressione, la polizia morale da cui guardarsi, l'imprigionamento del padre dissidente, la fuga. Non è un Iran in fiamme come quello che stiamo vedendo oggi, non è questo il centro della narrazione né il tempo storico, ma non possiamo neanche fare a meno di andare lì con il pensiero, osservando come tra le sedici parole scelte da Mona, "azadi", libertà, sia un anelito che in forma diversa attraversa tutta la narrazione e la storia stessa del Paese.

Si avverte una certa distanza nella narrazione, che mima la stessa su cui si fonda la storia, tra luoghi e persone. Non ci sono nel racconto della sottile discriminazione quotidiana cui è soggetta la protagonista scene di forte impatto emotivo, ma tante piccole crepe; la narrazione sfida i piani temporali, intreccia presente e ricordi, di Mona e degli altri protagonisti della storia, di cui solo alla fine riusciamo a intravedere il disegno complessivo. E talvolta lo spaesamento ci assale, la distanza ci sembra freddezza, alcune cose e persone scivolano via troppo velocemente. Alla fine però, lasciata sedimentare la lettura e anche mediante il confronto con altri lettori e con chi, in parte e in modi diversi ha fatto i conti con lo sradicamento, Sedici parole diventa una storia potente, che apre squarci nella pagina e, cosa più importante, nelle nostre vite.

Di Debora Lambruschini