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Una parodia esilarante e commovente dei tempi contemporanei in versione fantasy: Kivirähk con il suo "L'uomo che sapeva la lingua dei serpenti"

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L'uomo che sapeva la lingua dei serpenti
di Andrus Kivirähk
La Nave di Teseo, novembre 2022

Traduzione di Vincenzo Vega

pp. 496
€ 22 (cartaceo)
€ 11,99 (e-book)


Devo dire che chiudo l'anno con una lettura veramente eccellente. Sono solita mettere le carte in tavola subito, quindi mi sento di dire che questo è davvero un gran libro, apprezzabile sia dagli amanti della letteratura di fantasia che da quelli un po' più lontani in fatto di gusti letterari.
Andrus Kivirähk, nato a Tallin, è scrittore, giornalista e drammaturgo, e viene pubblicato da La Nave di Teseo con questo romanzo dal titolo "L'uomo che sapeva la lingua dei serpenti".
In materia di romanzi fantasy sono piuttosto esigente, essendo una lettrice di Tolkien e di Rothfuss, dunque avevo altissime aspettative per questa storia: ebbene, non mi ha affatto delusa, anzi, la metto tra le migliori letture dell'anno.
Per contestualizzare, il protagonista del libro, Leemet, vive a cavallo di un cambiamento che vedrà lo scontrarsi del Vecchio Mondo col Nuovo: ci troviamo nell'Estonia medievale, in un mondo in cui esiste la magia, esistono dei pesci giganti con la barba, esiste il mito della Salamandra - leggendario animale volante dal carattere distruttivo - si può imparare la lingua dei serpenti, che permette a chi la usa di conversare ed eventualmente farsi obbedire dagli animali, ed esistono orsi seduttori che fanno strage di cuore tra le ragazze. Il Vecchio Mondo in cui Leemet nasce è un universo fantastico, in cui lui e quelli come lui crescono in una foresta intrisa di magia, in armonia con la natura e le bestie. Ma, ecco che il Nuovo Mondo prende piede: nel libro vengono chiamati "gli uomini di ferro" e nient'altro sono che i colonizzatori europei cristiani che distruggono e pretendono di evangelizzare i "selvaggi" di ogni paese.
La vita di Leemet sarà caratterizzata da avventure epocali e al tempo stesso esilaranti, e di grandissima importanza, per il suo apprendimento riguardo la lingua dei serpenti, sarà l'amicizia con Ints, una vipera reale col quale stringerà un legame indissolubile e commovente.
Avventure sì, ma anche tremende disgrazie, che lo condanneranno a essere per tutta la vita "l'ultimo".
Il vecchio mondo dunque non è affatto morto. Finché io sarò qui, finché quella vecchia bestia esisterà, nella foresta ci sarà qualcuno in grado di ricordare, qualcuno che saprà la lingua dei serpenti. (p. 12)

"Come vuoi, ma sappi che sei l'unico e ultimo pagano del nostro villaggio!"
Evitai di rispondere. Cosa potevo dire? Ero già abituato a essere l'ultimo, dappertutto, sempre. (p. 382)
In mezzo al conflitto tra quelli come lui - uomini liberi, saggi, in accordo con la natura - e gli "altri", quegli stupidi contadini che mangiano pane e che pregano un certo Dio, Leemet si troverà suo malgrado ad assistere allo sgretolamento delle abitudini, delle tradizioni e dei retaggi dell'antichità, a favore di usanze a lui estranee, persino idiote, in nome di una divinità che non conosce e a cui non vuole sottomettersi. Geniale, a mio avviso, la descrizione della conversione di alcuni selvaggi al cristianesimo: l'autore parla di Dio, dei monaci, delle suore e delle preghiere come fosse una moda, come se Gesù fosse di fatto un idol. Chiara è la sua retorica, la sua ironia avvelenata, che critica l'indottrinamento forzato, la stupidità e l'ottusità di persone che hanno abbandonato la saggezza della foresta per seguire una religione straniera, colma di credenze infondate, di superstizioni, di malvagità, una vera e propria follia moderna. Una stoccata a ogni estremismo, soprattutto a quello di stranieri che pretendono di schiacciare la ricchezza culturale di un luogo ancora puro come l'Estonia.
[...] tutte le campagnole decisero all'unisono che, se una creatura così illuminata da essersi coricata con un cavaliere riteneva opportuno frequentare un ragazzo della foresta, allora quello doveva essere il massimo della moda [...] (p. 384)

[...] "I giovani si interessano a Gesù: il suo nome è sulla bocca di tutti, è un successo fenomenale" (p. 301)

"Proprio lui: Cristo. L'idolo dei giovani, ed è anche il mio idolo [...]
[...] "E con ciò? Io a mia figlia gliel'ho detto chiaro e tondo: se ti fai suora non metti più il naso in casa mia, razza di puttana!" (p. 305)
Più volte durante la lettura sono stata sul punto di scoppiare a ridere. Un grande pregio di questo libro è la sua capacità di trattare temi importanti e solenni con un'ironia e un'umorismo contagiosi, tanto che si ride nel vero senso della parola. Con la stessa comicità, l'autore porterà Leemet a sposarsi, a incontrare degli strani esseri chiamati "antropopitechi", grandi allevatori di pidocchi giganti, a navigare il mare per andare su un'isola a recuperare una sacca dei venti che servirà per far volare ali di ossa; lo condurrà a stringere amicizia con un'intera colonia di serpenti, dai quali passerà vari inverni in letargo, a innamorarsi di una certa Magdaleena, una contadina convertita, e persino, smacco ultimo, a decidere di vivere nel famoso villaggio dei cristiani, lui, ultimo abitante della vecchia foresta a sapere la lingua dei serpenti. Non pochi saranno i colpi di scena assoluti, sia in termini positivi che negativi.
La stupidità è più forte della saggezza. L'idiozia è coriacea come una radice conficcata nella terra un tempo calcata dagli uomini. La foresta si moltiplica, nel villaggio nascono sempre più persone; e io sono l'ultimo uomo a sapere la lingua dei serpenti. (p. 188)
Il legendarium costruito da Kivirähk è credibile, coerente, e soprattutto è al servizio di un fine più alto: mettere in piedi un'enorme parodia/metafora dei tempi contemporanei, del nostro mondo ossessionato dalle mode, dall'essere cool, dallo stare al passo coi tempi, anche a costo di fare del male a ciò che eravamo, alle nostre radici. Più volte l'autore fa parlare i suoi personaggi - Leemet, sua madre e Ints per la maggior parte - dando voce a quello spicchio ancora intatto di tradizioni e di ricchezza culturale che vanno morendo, soffocate dalla velocità e dalla paura di perdersi qualcosa.
La conversione dei selvaggi non è sincera: lo fanno perché è di moda e perché nella foresta non hanno più nulla da fare, avendo dimenticato come si caccia, come si vive e come si parla il serpentese.
Il disprezzo e lo sdegno di Leemet sono gli stessi del lettore e non potrebbe essere altrimenti: si empatizza per forze di cose con chi perde tutto e rimane, per l'appunto, l'ultimo.
Una lettura scorrevolissima, una prosa impeccabile, cinquecento pagine che volano come niente.
Consigliatissimo a chiunque voglia esplorare la fascinazione di una terra ancora immersa nei sortilegi e a chi vuole farsi due risate, pur leggendo di storie serissime.

Deborah D'Addetta