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"Qualcosa che non è di questo mondo": note sparse da un "Viaggio al Nord" di Karel Čapek

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Viaggio al Nord
di Karel Čapek
Iperborea, 2022

Traduzione di Susanna Chiti Chytilová e Nilo Pucci
Prefazione di Cees Nooteboom

pp. 212 
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

 

Avete presente super Mario che cammina, mentre alle sue spalle scorre velocissimo un paesaggio sempre nuovo? Questa è l’impressione che si trae dalle rapide annotazioni di Karel Čapek nel suo Viaggio al Nord, pubblicato postumo nel 1939. Lo scrittore era morto l’anno precedente, in tempo per sfuggire alle persecuzioni riservate dai nazisti agli intellettuali dissidenti (e diversamente da suo fratello, che verrà deportato a Dachau e poi a a Bergen Belsen, dove morirà nel 1945).
Apparentemente frutto di appunti registrati in presa diretta, quasi blog di viaggio ante litteram, il volume riesce a coniugare i toni lirici di un sincero estimatore delle regioni scandinave all’ironia sagace e bonaria con cui vengono osservati alcuni usi locali o le caratteristiche del paesaggio.
Mi pare, leggendo, che la migliore valorizzazione di un’opera come questa possa venire da chi ha già visitato i paesi che vengono descritti: la Danimarca, la Svezia, la Norvegia… chi abbia presente alla mente e al cuore i paesaggi nordici potrà apprezzare particolarmente le descrizioni, ma anche il tono lieve o sferzante di alcuni giudizi, nel confronto tra un passato non così lontano e il presente. E se alcune impressioni appaiono immutate, altre invece stupiscono perché segnalano un importante cambiamento avvenuto nel corso del Novecento (si veda ad esempio la delusione di Čapek al suo arrivo a Oslo, oggi città vivissima, moderna e cosmopolita: “Cercavo […] una risposta al perché un popolo così piccolo e, per quanto posso giudicare, povero, e una città non grande e, per quel che ho visto, banale come Oslo, abbiano potuto dare una letteratura così grande e stupefacente. Non sono riuscito a trovare una risposta”, p. 60).

Anche se le note si focalizzano per lo più sull’aspetto naturalistico, sulle distese dei campi, l’asperità delle montagne, le acque trasparenti dei laghi o dei fiordi, le casupole che sorgono isolate o gli edifici che si assiepano nelle città, l’autore ha sempre ben presente il quadro storico dell’epoca, e lo fa emergere, più o meno esplicitamente, tra le righe, celebrando per esempio i valori civici delle popolazioni scandinave, l’ordine che lì si respira contrapposto al disordine dell’Europa del tempo:
[la città] è piena di statue di bronzo dei re, di ciclisti, di belle ragazze dalle gambe lunghe e di giovani, quasi tutti di un’altezza eccezionale; sono una razza perfetta, ma non per questo posseggono una teoria della razza. (p. 43)
Se […] c’è ressa al ristorante, invece di contendersi il posto, come si fa in Europa, la gente si mette ad attendere pazientemente in fila, fino a che il dignitoso proprietario non ti accompagna a sedere al tavolo. Se si comportano sempre così, non è difficile fare il re lì, poiché non è un compito gravoso governare su uomini che sono già signori di se stessi. (p. 45)
La principale minaccia alla serenità del viaggiatore non deriva tanto dai locali, quanto da inaspettate aggregazioni umane. È in questi casi che, in barba al politicamente corretto, Čapek dispiega maggiormente il suo spirito umoristico: “Visto come vanno le cose oggi in Europa, un viaggiatore dovrebbe prima informarsi se per caso nel luogo dove è diretto non sia in corso una guerra civile, un colpo di Stato, o un qualche congresso” (p. 59). In particolare, il povero viandante viene funestato a Oslo dal congresso mondiale degli insegnanti delle scuole domenicali, che però con un po’ d’astuzia si possono evitare. Lo stesso non si può fare purtroppo sul postale per i fiordi del Nord, dove si trova la congregazione di una qualche chiesa americana, che travolge letteralmente l’imbarcazione con i suoi slanci ecumenici e di conversione. Tra le altre cose:
4. Organizzano giochi di società, balli, divertimenti, cori, giaculatorie e altri spassi; coltivano più che altro una specie di giulivo cristianesimo e propagano attorno a sé, continuamente, un gioioso spirito, pio e innocente. Vi dirò: è terribile!
5. Esercitano instancabilmente un operoso amore per il prossimo, prendendosi cura di chi ha il mal di mare, dei cani, degli sposi novelli, dei bambini, dei marinai, degli indigeni e degli stranieri, soprattutto abbordandoli e infondendo loro coraggio con giovialità; […] non ci è rimasto che barricarci in cabina e là bestemmiare accanitamente a bassa voce. Che Dio abbia pietà dell’anima nostra! (p. 78)
L’unica soluzione valida a tale flagello pare essere un’insurrezione a bordo della nave che porti alla neutralizzazione del gruppo, o almeno allo scaricamento fuori bordo del loro pastore, ma il piano è reso complesso dall’assenza di un giusto quantitativo di alcool con cui dare coraggio agli insorgenti.
Ecco allora il secondo problema: procurarsi qualcosa con cui raggiungere il giusto grado etilico. Anche questa missione pare però particolarmente ardua: “ikke alkohol”, niente alcol, pare essere infatti il motto dominante nei fiordi del Nord, oltre che sul loro vascello. Per fortuna, dove non arriva l’alcool può arrivare la bellezza, che stordisce e sbalordisce, soprattutto quando non è ordinaria, rasserenante, ma eccessiva, quasi perturbante, eco del sublime. Man mano che ci si allontana dalla civiltà e si procede verso nord, alla fascinazione si mescola un senso di timore, mentre vengono toccate corde primigenie, irrazionali, legate ai fiordi, alle ombre lunghe, alla confusione tra sopra e sotto, giorno e notte che viene generata dai riflessi delle montagne sull’acqua immobile. Spesso le parole sono inadeguate, insufficienti, ecco perché Čapek ricorre sempre più spesso agli schizzi, sperando che possano restituire almeno in parte ciò che l’occhio ha colto, ma la voce non può ridire:
Mi rendo conto che le parole non bastano; con le parole si può parlare d’amore, o di fiori di campo, ma di rocce è difficile; come possono le parole definire il profilo e l’aspetto di un monte? […] Con delle semplici parole non puoi scorrere con il pollice lungo le creste, né prendere fra i polpastrelli le vette più alte per tastarne con voluttà gli spigoli, le fratture taglienti; con le parole non puoi accarezzare con le dita il loro diramarsi, la spina dorsale, le membra poderose; […] Dio, che anatomia, che bellezza! […] Ebbene, tutto ciò si fa vedere e toccare con gli occhi, perché gli occhi sono uno strumento divino e la parte migliore del cervello; sono più sensibili dei polpastrelli, più acuti di una punta di coltello; con gli occhi si può, ma con le parole, ahimè, no; io stesso ormai non narrerò ciò che ho veduto. Ho provato con le dita intirizzite a disegnare; vento o non vento proverò a disegnare una montagna dietro l’altra. (p. 126, 128)
E anche se neppure i disegni e gli abbozzi, che costellano ogni pagina di questo lungo diario di viaggio, possono rendere i colori, la densità dell’aria, le impressioni sensoriali, riescono a evocarne almeno un’impressione, coniugati agli slanci poetici che colgono Čapek a confronto con i panorami senza tempo degli estremi settentrionali d’Europa:
Come faccio a descrivere qualcosa che non è di questo mondo? L’acqua è trasparente e verde come lo smeraldo, imperturbabile come la morte, o come l’eternità, e terribile come la Via Lattea; quei monti non sono reali, perché non poggiano su di una riva, ma su di un infinito, abissale riflesso; sono solo un miraggio! (p. 131)
Il senso di straniamento si fa più profondo nel momento dell’esperienza quasi sacrale del sole a mezzanotte, a Capo Nord. La dilatazione della descrizione nelle pagine asseconda la volontà di trasmettere un qualcosa di viscerale, mai provato prima e destinato a restare ineguagliato, vivo nella memoria. Di fronte a questo rovesciamento dell’ordine naturale, dei ritmi consueti, l’uomo è messo di fronte ai limiti della propria comprensione e all’impossibilità di realizzare, appagare il proprio desiderio di pienezza. Ne scaturisce un senso di malinconia difficile da estirpare, ma in qualche modo perfettamente chiaro al lettore, che lo riconosce come proprio. Non è un caso che la fine del viaggio sia associata dall’autore proprio al ritorno della notte, che è anche un ritorno alla Storia (“forse la vera fine del viaggio sarà la prima notizia tremenda, disumana”, p. 201). Il Nord ricorda all’uomo la grandezza del mondo, ma anche l’impossibilità (o l’insensatezza) della fuga. Rimane allora il ricordo di altri luoghi, di altre possibilità di vita, quella curiositas che è alla base della civiltà e che, di lì a poco, sarebbe stata travolta dalla barbarie della Seconda guerra mondiale. 
 
Carolina Pernigo