in

Corpi in prestito: per ogni singola vita che conta, "Che razza di libro!" di Jason Mott

- -

 




Che razza di libro!
di Jason Mott
NN Editore, 2022

pp. 311
€ 19,00 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
 
Titolo originale: Hell of a Book
Traduzione di Valentina Daniele

 

Ci sono alcune cose che capiamo fin da subito, nel leggere Che razza di libro! (sottotitolo: o La storia, basata sui fatti e in completa buona fede, di un ragazzo matto, autenticamente americano, dai grandi sogni e dalla sorte avversa). La prima è la grande verve umoristica dell’autore, che viene prestata al suo narratore interno. Lo incontriamo la prima volta mentre corre, nudo, tra i corridoi di un hotel per sfuggire al marito geloso di un’amante che li ha appena colti in flagrante. Il problema è, ci spiega immediatamente, “che tutti i corridoi degli alberghi, come tutte le vite e tutte le storie, a un certo punto finiscono da qualche parte, che sia un ascensore o una porta antincendio” (p. 17). Lui però è abile a tirarsi fuori dai guai, grazie a un pizzico di fortuna e a una conversazione brillante, che gli consente di entrare rapidamente in sintonia con le persone (a parte forse con il gigante furibondo che lo insegue ululando).
La seconda nota che emerge, perché la confessa il protagonista stesso, scrittore esordiente travolto da un improvviso successo, è la sua inattendibilità: lui ha infatti un disturbo che lo porta a non saper distinguere ciò che accade realmente dalle sue fantasie (“la realtà è una cosa molto fluida nel mio mondo”, p. 24). Se questo da un lato lo rende eccellente come inventore di storie, dall’altro ci fa intuire fin da subito che quello che racconterà potrebbe non coincidere col vero, invitandoci a tenere gli occhi ben aperti durante la lettura.
La mattina successiva all’increscioso evento della fuga, conclusosi in maniera inaspettata, nella sala colazione l’uomo viene avvicinato da un ragazzino. Ha circa dieci anni, “tutto il suo futuro in una sola occhiata” (p. 27), e la pelle più nera che si sa mai vista. Talmente nera che sembra di sprofondarci dentro, nera che non si può distogliere lo sguardo, una pelle definita “bella”, come il suo sorriso e il suo accento del sud, ma anche “inquietante” e “impossibile”. Il ragazzino non è un fan e sembra non volere niente di particolare da lui, solo di essere visto. La sua presenza, sempre più assillante, sembra reclamare una promessa che l’autore non è ancora pronto a fare.
A capitoli alterni, Jason Mott ci fa intravvedere alcuni scorci sulla vita di questo ragazzino, che per anni ha cercato di essere invisibile senza riuscirci. In queste pagine, narrate da una prospettiva esterna agli eventi, il tono si fa per contrasto incredibilmente serio. Sussultiamo, insieme al bambino, soprannominato Nerofumo dai bulli per il colore della sua pelle, a ogni violenza subìta, a ogni insulto o vessazione. Iniziamo a chiederci se per caso non c’entri con un altro ragazzino, protagonista di un tragico fatto di cronaca non meglio definito, di cui il narratore continua a sentir parlare senza andare mai a fondo. Eppure, della violenza che lo circonda, dei soprusi inflitti agli afroamericani dovrebbe interessargli di più, considerata la sua situazione. Glielo suggerisce Renny, assunto come assistente durante il tour promozionale, facendolo sprofondare in un abisso di consapevolezza:
“Sei uno scrittore. Dovresti dire qualcosa su questi fatti. E sei nero!”
“Davvero?” chiedo. Mi guardo il braccio e in effetti Renny ha ragione. Sono nero!
Una scoperta sconcertante, a questo punto! […] Sto ancora elaborando la mia improvvisa nerezza. Da quanto tempo sono nero? Quand’è successo? Sono nato così? E se sì, perché non me lo ricordo? (p. 76)
La notizia cade su di lui come un fulmine a ciel sereno, producendo un effetto di sorridente straniamento, ma inducendo anche delle riflessioni, in lui e nel lettore. Il fatto che sia nero è davvero così rilevante? Perché ci si stupisce di non averlo minimamente immaginato? E perché, si chiede poi lui, questo dovrebbe avere un impatto sull’opera? Perché essere nero dovrebbe costringere a farsi portavoce dei diritti, paladino di una causa? Forse perché, e la risposta emerge sempre più nitidamente nello scorrere delle pagine, una cosa che dovrebbe essere del tutto naturale e per niente rilevante, come il colore della propria pelle, a cui qualunque persona bianca non dedica un singolo pensiero durante la giornata, nella società continua a essere elemento di distinzione, determinatore di destini.
Il protagonista del romanzo è uno che fatica a prendere una posizione: per entrare in sintonia con le persone, per lo più ripete quello che dicono loro, ma non prova vera empatia. La giustificazione che si dà è che è impossibile affezionarsi davvero a tutti (“non è che siamo cattivi, è che siamo solo persone”, p. 96). La tendenza a rifuggire il dolore del resto non vale solo per quello altrui: anche le cose veramente importanti per lui vengono sempre lasciate ai margini della narrazione, mai affrontate (i contenuti del romanzo pubblicato, la morte della madre…). Scavando in una memoria che sussulta e trema come il miraggio di un’oasi nel deserto, lo scrittore si rende conto che la scelta di non parlare di problemi sociali gli è stata imposta in funzione di un pubblico che vuole essere tranquillizzato, che vuole leggere di pacificazione e omologazione, non opere di denuncia (“nessuno vuole sentir parlare della propria mostruosità. E se ti capiterà di parlarne, ti odieranno. Chiedo al mostro di Frankenstein”, p. 105). Ecco allora la raccomandazione di editori e consulenti che tutto sia “il più leggero possibile”, privo di bandiere, in un’ipocrisia mascherata da professionalità. Ma lo scrittore fatica sempre di più ad accettarlo: con la consapevolezza di sé, della propria “nerezza”, arriva anche il pungolo delle domande, e si moltiplicano le visite del bambino, che nella sua ingenuità è ancora convinto che ciascuno debba cambiare la propria vita in considerazione dell’esistenza degli altri. Poco alla volta, capiamo qual è la relazione tra lo scrittore e il piccolo Nerofumo. Accade nel momento in cui l’uomo inizia a parlarci di sé. Lo fa perché la scrittura è una soluzione, ma l’amore è una soluzione più grande (e questa infatti è una storia d’amore, come ci viene detto fin dalla prima pagina). Da qui la necessità di tornare indietro, e scendere più a fondo.
Vediamo quindi suo padre, divorato dalla segreta paura di non poter proteggere il figlio dal mondo (come tutti i padri neri di tutti i figli neri).
Ecco cos’era la Paura, alla fine. Da cosa derivavano tutte le paure delle persone con la pelle di un certo colore che vivevano in un certo posto. Ma non era solo una paura, era una verità. Una verità dimostrata da generazioni. […] Ci sono corpi che non sono di chi li abita. […] C’era sempre stata, ma ora riuscivo a vederla. A riconoscerla. E quando succede, quando la vedi, non puoi più distogliere lo sguardo. Non puoi zittirla. Non puoi mai dimenticare che non appartieni più a te stesso, ma alle mani, ai pugni, alle manette e ai proiettili di uno sconosciuto. (p. 128)
Vediamo una madre che si consuma nell’angoscia di vedere il proprio bambino morto, come altre madri di altri bambini morti. Come quello che riempie le pagine dei giornali, le strade durante le manifestazioni, ma presto sarà travolto dall’oblio e dallo scorrere inane dei giorni.
Anche il protagonista di Che razza di libro! è un uomo divorato da un dolore inconfessato, che non vuole riconoscere. Per questo sprofonda dentro le proprie fantasie, per questo preferisce non pensare ai fantasmi sempre più intrusivi che emergono dal suo passato. Per questo, soprattutto, beve troppo e non si ascolta parlare di sé e del suo libro, temendo che le due cose coincidano.
“Allora, di che parla il suo libro?” e ogni volta che rispondevo diventava sempre più difficile non ascoltare le parole che pronunciavo. Quello è stato il mio segreto per affrontare il tour promozionale: parlare del mio libro senza ascoltarmi davvero. (p. 193)
A un certo punto però è necessario prendere atto della verità, accogliere il Ragazzino, sentirlo fare la sua richiesta, provare a guardarlo davvero, a parlarne davvero. Perché le parole non salvano da un mondo pieno di false promesse, dalla crudeltà dell’uomo (in buona o cattiva fede), ma possono almeno farsi testimonianza, possono tenere in vita la lunga schiera di chi non ce l’ha fatta.
Il passato e il presente, la realtà e la finzione, l’interno e l’esterno della pagina. Tutto si mescola in Che razza di libro!. E alla fine non appare più così importante dipanare i fili della trama, mettere ordine, tracciare limiti, definire le identità. È più importante farsi cogliere da un messaggio che nella sua sostanza è più forte di qualsiasi struttura, e guarda diritto al cuore pulsante e a tratti oscuro della nostra società, cercandovi lo spiraglio per un miracolo.
  
Carolina Pernigo