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Il gorgo crudele della storia: "Stalingrado" di Vasilij Grossman

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Stalingrado di Vasilij Grossman traduzione di Claudia Zonghetti
Adelphi, 202

pp. 884
€ 29,90 (cartaceo)
€ 19,99 (ebook)

Stalingrado è il primo volume della dilogia che ha in Vita e destino il seguito. Il titolo con cui il romanzo era stato pubblicato in Unione Sovietica nel 1952 era Per una giusta causa, che parafrasava le parole pronunciate dal ministro degli Esteri sovietico, Vjačeslav Michajlovič Molotov, all’inizio della guerra: “la nostra causa è giusta”. Ma non è solo nel cambio del titolo (Grossman avrebbe per l'appunto voluto Stalingrado) che la censura sovietica mise la propria firma in quest'opera: intervenne chiedendo di tagliare alcuni personaggi e di aggiungere capitoli che esaltassero  l'eroico lavoro  di fabbriche e miniere della Siberia.   
L'operazione editoriale qui presentata è ardita perché vuole consegnare, delle tre edizioni e delle ben undici stesure, la versione più autentica, più affine al mondo spirituale dell'autore. Questa travagliata storia editoriale ci aiuta a comprendere il carattere composito (talora anche contraddittorio) tanto da un punto di vista stilistico quanto da quello ideologico di Stalingrado.
Il romanzo si apre nell'aprile del 1942, quando il treno di Mussolini si ferma alla stazione di Salisburgo, dove Hitler è in attesa di discutere di una grande offensiva tedesca nella Russia meridionale. 
I due sedicenti padroni dell'Europa si incontravano ogni volta che Hitler predisponeva una nuova sciagura nella vita dei popoli  (p. 13).
Poche pagine dopo, però, l'occhio (onnisciente) del narratore mette a fuoco su un comune contadino russo, Pëtr Semënovič Vavilov, che ha appena ricevuto la chiamata alle armi e si preoccupa di non avere abbastanza tempo per lasciare alla propria famiglia la legna che li potrà tenere al caldo per il resto dell'inverno. Un uomo semplice non ha tempo per riflettere sulla gloria o sul senso della guerra, sa solo che sta andando a morire e gli manca anche il coraggio di dire addio alle persone più care.
In questo brusco cambio di prospettiva, veniamo subito a conoscere i binari su cui Grossman farà viaggiare la sua storia - o meglio "le sue storie" - quello della Storia, dei capi e degli Stati, e quello delle microstorie dei tanti Vavilov, sui quali l'impatto della Storia con la S maiuscola è 
tutta la forza malvagia di un gorgo crudele cui nulla importava di lui, di ciò che amava e voleva. Provò l'orrore che deve provare un pezzo di legno quando di colpo capisce che non sta scivolando lungo rive più o meno alte e frondose per sua volontà, ma perché spinto dalla forza impetuosa e inarginabile dell'acqua. Vavilov si credeva il baluardo della sua famiglia, colui che la teneva insieme, e invece no: il gorgo lo aveva preso e portato via, e lui non apparteneva più né a sé stesso, né alla sua famiglia, né a niente. (p. 33). 
Stalingrado è chiaramente modellato su Guerra e pace e non interessa qui tanto il fatto che  l'establishment cercasse un Tolstoj dell'U.R.S.S., un Tolstoj "rosso" in grado di consegnare anche questa guerra ai posteri, ma il fatto che lo stesso Grossman nel romanzo ritagli un momento di intenso tributo all'immortale Lev.
Krymov, commissario politico dell'Armata Rossa e primo marito di Zenja Nikolaevna, va in visita a Jasnaja Poljana e si accorge che anche la casa-museo è stata intaccata nella sua serenità dal fragore della guerra. 
Per questo gli era parsa viva, quella casa, viva e sofferente in mezzo a centinaia, migliaia di altre case russe che vivevano e soffrivano. [...] Krymov andò anche sulla tomba di Tolstoj. Terra umida e fangosa, aria umida e malsana, foglie d'autunno che scricchiolavano sotto i piedi. Era una sensazione srana, greve: la solitudine, l'abbandono di quella schiena di terra ricoperta di foglie d'acero secche, e il legame vivo, bruciante di Tolstoj con quanto stavano vivendo in quei giorni. Krymov guardava la piega lieve del terreno e soffriva all'idea che, di lì a qualche giorno, gli ufficiali tedeschi arrivati davanti a quella tomba avrebbero fumato, riso, chiacchierato sguiatamente. (pp. 266/267).

Erano i pensieri di Grossman, che nel 1941 era andato in visita alla tenuta di Jasnaja Poljana, in quella "corrispondenza d'amorosi sensi" con la tomba del grande predecessore, aveva in qualche modo raccolto il testimone e il senso del suo lavoro letterario: rendere onori ai morti, soprattutto a quelli dimenticati. Se in Guerra e pace i molteplici fili della narrazione di Stalingrado si annodavano attorno a tre famiglie, Grossman ne sceglie una, gli Šapošnikov. Dalla matriarca Aleksandra Vladimirovna alle figlia Ljusmila, Marusja, Zenja, ai tanti nipoti, mariti ed ex-mariti, la famiglia Šapošnikov è un perfetto microcosmo delle tante differenti anime dell'Unione Sovietica e nel personaggio di Abarčuk, Grossman presenta una feroce critica al fanatismo, alla fedeltà all'idea della rivoluzione che diventa ferocia e insensatezza.

Raccogliere il testimone di Guerra e paceca va sans dire, è una missione che fa tremare le vene e i polsi, e non credo sia infine del tutto utile insistere su questo parallelismo. È vero che l'uno e l'altro testo contengono riflessioni generali sulla storia, la politica, la filosofia; è vero che anche Grossman si pone come narratore onnisciente, ma manca al romanzo di Grossman - per i motivi spiegati all'inizio - la Weltanschauung unitaria di Tolstoj. Se, nella seconda parte della dilogia (Vita e destino) il giudizio sull'Unione Svietica diverrà più netto, in Stalingrado si alternano momenti di critica all'intransigenza comunista (dicevamo del personaggio di Abarčuk), rappresentazione realista e umana, non caricaturale dei tedeschi a momenti in cui la narrazione dell'assedio di Stalingrado sembra ricalcare troppo il resoconto ufficiale degli eventi, con celebrazioni quasi agiografiche dei militari russi.

Tuttavia, vi sono moltissime pagine che giustificano pienamente la lettura di un tomo così impegnativo e che ci trasportano in momenti di puro piacere estetico, grazie ad una prosa superba. Nel tumulto della guerra, della distruzione cieca e insensata, Grossman riesce a ritagliarsi un momento di descrizione estatica della steppa, che diviene correlato oggettivo dell'immane forza della natura:

È enorme, la steppa. E come il cielo e il mare prendono colore al tramonto, così la terra dura e riarsa della steppa, grigiastra e giallognola durante il giorno, la sera cambia colore. È questo che la rende simile al mare. La sera la steppa diventa rosa, poi blu, poi di un nero violastro. (p. 234)

In questa quieta, in questa sinfonia di suoni e odori, arriva il momento della contemplazione del cielo (ben diverso dal cielo di Austerlitz, in cui il principe Andrej aveva intuito la vanità del Tutto e il senso nascosto della Vita). Il cielo nel 1942 è anch'esso preda a devastanti esplosioni:

Nel cielo, ad altezze terrificanti, nel silenzio impassibile dello spazio cosmico, è un susseguirsi di incendi senza boati né esplosioni né fumo. Prima le fiamme lambiscono una nuvola grigio cenere alta e tranquilla, che un minuto dopo avvampa come un palazzo di mattoni rossi e vetri lucenti; poi tocca alle altre. Nuvole enormi e nuvole piccole, nuvole a cumuli e nuvole piatte come scisti prendono fuoco e si scontrano l'una con l'altra, sfaldandosi. (pp. 234/235). 

L'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo, ancora una volta, si corrispondono in un destino di amicizia e solitudine, felicità e tristezza.

Come ogni libro che ha l'ardire di rappresentare il Mondo, Stalingrado può non risultare perfetto, ma già l'idea somma della letteratura su cui Grossman investe merita che il lettore si tolga il cappello e si  avvicini con beata meraviglia a questo romanzo.

Deborah Donato