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"Infanzia", la riscoperta della voce potente, lirica, malinconica di Tove Ditlevsen

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Infanzia
di Tove Ditlevsen
Fazi, marzo 2022

Traduzione di Alessandro Storti

pp. 150
€ 15 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)


Dico spesso che pur condividendo la lettura con qualcuno, alla fine ognuno di noi legge una storia diversa: delle tematiche e spunti più immediati che cogliamo in modo simile, ci sono chiavi di lettura che sono personali, frasi che incendiamo la nostra immaginazione, occorrenze con testi che abbiamo letto in precedenza, topos letterari che fanno particolare presa. Infanzia di Tove Ditlevsen, primo volume della trilogia di Copenaghen da poco in libreria per Fazi nella puntuale traduzione di Alessandro Storti, apre molti squarci dentro i lettori, a partire da quelli più evidenti – la riflessione sull’infanzia, il fascino della scrittura, la precarietà e il quotidiano famigliare – per poi andarsi ad aggrappare a corde che sono per ogni lettore diverse.
È un libro molto breve, le parole graffiano la pagina: lo stile asciutto, le frasi secche; poi, improvviso, lo slancio lirico, tanto dei versi che qui e là si inseriscono nella narrazione, quanto della potenza delle immagini evocate. Tove Ditlevsen, celebrata poetessa e scrittrice danese, è stata sempre un’outsider, nella vita personale quanto in quella letteraria e a più di quarant’anni dalla sua scomparsa – morta suicida nel 1976 – la riscoperta è preziosa, la parola incide solchi dentro di noi, non ha perso nulla della forza originale. I tre volumi che compongono la trilogia – di cui ci auguriamo Fazi proseguirà con la pubblicazione – sono testi a confine tra romanzo e autobiografia, ma al di là delle etichette critiche ciò che conta è la capacità di superare il particolare per farsi narrazione universale. La vicenda è assolutamente personale, Ditlevsen scandaglia la propria memoria attingendo sempre al mondo dell’infanzia e al suo vissuto, ma il ritmo è romanzesco e la narrazione è inaspettatamente tutt’altro che autocentrica.

Dell’infanzia Ditlevsen evoca i tratti più misteriosi, i sentimenti contrastanti fra malinconia per qualcosa che in sé porta già inevitabile i segni della fine e il disincanto:
Dovunque ci si volti, si va a sbattere contro la propria infanzia e ci si fa male, perché è spigolosa e dura e ci si ferma solo dopo esserne stati completamente lacerati. (p. 39)
Di quest’infanzia nel quartiere operaio di Copenaghen del primo dopoguerra, Ditlevsen racconta il quotidiano, le ristrettezze economiche, il risentimento, le distanze nei rapporti, facendo rivivere al contempo sulla pagina il microcosmo di uomini, donne e bambini che popola il quartiere, ognuno con il suo carico di difficoltà malcelate. È la voce di Ditlevsen bambina a portare il lettore dentro la storia e la scelta di questo sguardo influenza profondamente tutta la narrazione: è uno sguardo che non comprende molti dei misteri dell’età adulta, la complessità del rapporto fra i genitori, le umiliazioni e la ferocia degli adulti; coglie i segnali di qualcosa che non afferra ancora del tutto ma di cui riconosce i sentimenti, mentre si muove attenta a indossare di volta in volta una maschera diversa per proteggersi, celare il proprio io, i versi che si fanno strada istintivi dentro di lei. Non è una scoperta quella della poesia, bensì un elemento che scorre dentro di lei, parole che si susseguono spontanee e creano immagini, danno forma a stati d’animo e sentimenti, alle mancanze, ai desideri non ancora esplorati, e che talvolta straripano dagli argini lasciandola immobile, completamente immersa nel suo mondo interiore. La bambina strana, che non sa giocare come gli altri, la bambina povera che ha imparato a leggere da sola e che da grande vuole fare la scrittrice. Incauta a rivelare i suoi desideri così ingenuamente, in un mondo che non prevede spazio per le donne con ambizioni letterarie, tanto più per le donne che non hanno mezzi di sostegno. Il suo sogno deriso, umiliato, fatto a pezzi. E allora sarà un’altra maschera da indossare, fingersi stupida, nascondere il quaderno di poesia in fondo a un cassetto e non rivelare mai più a nessuno il desiderio di scrivere. Una promessa fatta a se stessa e mantenuta per tutta l’infanzia.

Al centro di quegli anni e, a mio avviso, al centro della narrazione tutta, la figura materna:
Il mio rapporto con lei è stretto, doloroso, traballante, e se voglio un segno d’affetto devo cercarlo io. Qualunque cosa io faccia, la faccio per compiacere lei, per farla sorridere, per acquietare la sua rabbia. (p. 17)
È intorno a lei che ogni cosa si intreccia, è lei che irradia luce e oscurità. È con lei che apre la narrazione, fin dall’incipit:
Al mattino la speranza c’era. Si posava come un effimero bagliore sui capelli neri e lisci di mia madre, che io non ho mai osato toccare, e si stendeva sulla mia lingua insieme allo zucchero del semolino tiepido che mangiavo lentamente, mentre osservavo le sue mani affusolate, ripiegate l’una sull’altra, immobili sul giornale che parlava dell’influenza spagnola e del Trattato di Versailles. (incipit, p. 7)
È inafferrabile, mutevole e dura come la pietra, «un’estranea misteriosa», ma anche spaventata dal mondo fuori dal quartiere; una madre-bambina, che rimpiange la libertà perduta, la giovinezza sacrificata per le responsabilità famigliari, la precarietà. Bellissima e crudele, è il centro gravitazionale di questo piccolo mondo e il suo più inafferrabile mistero, che la bambina Tove non riesce mai a comprendere davvero. Tanti i silenzi, le mancanze, la freddezza ostinata per punirla, punire tutti quanti. E ogni cosa, sempre, sarà fatta per compiacere lei, rendersi finalmente visibile ai suoi occhi. Affascinata da quella madre bellissima, Tove capisce poco alla volta quanta paura si celi dietro i suoi modi:
Alzo lo sguardo su di lei e mi rendo conto di diverse cose simultaneamente: è più piccola delle altre donne adulte, più giovane delle altre madri, e al di fuori della via in cui abitiamo c’è un mondo che la spaventa. E quando ci spaventa entrambe, lei mi pugnala alla schiena. Ora che siamo lì, davanti alla strega, noto anche che le mani di mia madre sanno di bucato. Lo detesto, quell’odore, e mentre in perfetto silenzio usciamo dalla scuola, il mio cuore si riempie di quel caos di rabbia, dolore e compassione che da oggi in poi, per tutta la vita, mia madre desterà sempre in me. (p. 19)
La complessità di un rapporto a cui tornare, sempre, indagando gli anni dell’infanzia mano a mano che vanno scomparendo, la crescente malinconia per una stagione destinata a morire. Facendo posto a un’età incerta, a nuovi misteri.