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L'opposto di me stessa: la malattia mentale, l'ironia e il dramma, in uno romanzo che scardina stereotipi e pregiudizi

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L'opposto di me stessa
di Meg Mason
Harper Collins, gennaio 2022

Traduzione di Chiara Ujka

pp. 384
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Maneggio queste parole con particolare cura, rifletto su ogni singola cosa voglia comunicare a proposito di questo sorprendente romanzo, nella speranza di rendere giustizia a una storia che non voglio correre il rischio di banalizzare o trattare in modo superficiale. L’opposto di me stessa – in originale Sorrow and bliss – è il primo romanzo tradotto in italiano della giornalista inglese Meg Mason e nel giro di pochi giorni dall’uscita nel Regno Unito era già diventato un caso letterario, ben accolto dalla critica e dal pubblico. Quando si è presentato sul mercato editoriale italiano credo ci sia stato un piccolo fraintendimento e, a un primo sguardo, pareva trattarsi di un romanzo piuttosto comune, la storia di una donna dalla vita all’apparenza perfetta che di punto in bianco si ritrova alla soglia dei quarant’anni separata dal marito, in bolletta, senza amici, a tornare a casa dei genitori. Fosse stato tutto qui avrei molto probabilmente ignorato questo romanzo, se non per il fatto che una certa critica internazionale di cui di solito mi fido ne aveva parlato in termini assai positivi, chiarendo fin da subito quale fosse il nodo centrale intorno a cui si dipana ogni cosa, ogni pagina: la malattia mentale.
A meno che io non vi informi del contrario, durante i miei vent’anni e per la maggior parte dei trenta, sono stata depressa a intervalli, depressa leggermente, moderatamente, gravemente, per una settimana, due settimane, sei mesi, sempre […]. Ma gli intervalli nel mezzo erano abbastanza lunghi da farmi pensare che ogni episodio fosse a sé stante, con una sua causa particolare e concreta, anche se la maggior parte delle volte faticavo a identificarla. (p. 71)
L’opposto di me stessa è quindi un romanzo ben più complesso e interessante di quanto erroneamente avevo pensato all’inizio, le pagine intrise di dolore e rabbia, distruttive, eppure attraversato anche da un’ironia spiazzante. Ho sorriso molto, mi sono commossa ancora di più. 
Mediante una narrazione in prima persona, su due differenti piani temporali, è la voce di Martha Friel a raccontare al lettore il caos della propria vita, a partire dalla “fine”, ossia dalla dolorosa separazione dal marito e il conseguente ritorno alla casa della sua infanzia. È una lenta, dolorosa, ricostruzione a ritroso della vita di una donna a cui, a un certo punto, una bomba è esplosa nel cervello e niente è stato più come prima.
Quello fu l’ultimo Natale prima che una piccola bomba mi esplodesse nel cervello. La fine, nascosta nell’inizio. (p. 42)
Aveva solo diciassette anni e quel primo, importante, episodio ha segnato uno spartiacque fra la vita di una ragazza come tante altre – forse un po’ più incasinata da una famiglia chiaramente disfunzionale – e l’adolescente e poi adulta che lotta contro sé stessa, contro una malattia dai mille nomi, i farmaci, le diagnosi superficiali, la negazione. In mezzo, la vita: lo studio, le relazioni sbagliate, il rapporto strettissimo con la sorella, le crisi della madre artista di scarso successo, l’affetto del padre poeta, l’appiglio in Patrick, amico d’infanzia e poi marito. Una casa, le vacanze, i progetti, la quotidianità. Ma dentro questa vita c’è, soprattutto, la malattia mentale: le crisi violente, i blackout, la paura che stritola, l’apatia, la rabbia. I tentativi di suicidio. La negazione della maternità.
Tutto è insieme rotto, incasinato e completamente a posto. Ecco com’è la vita. Sono solo le proporzioni che cambiano […]. Ecco com’era la vita e come continuò a essere nei tre anni successivi. Le proporzioni che cambiano da sole, rotto, completamente a posto, una vacanza, un tubo che perde, lenzuola nuove, buon compleanno, un tecnico tra le nove e le tre, un uccellino entrato dalla finestra, voglio morire, per favore non riesco a respirare, penso sia un pranzo, ti amo, non posso più farlo, entrambi pensando che sarebbe stato così per sempre. (p. 249)
È estremamente difficile calarsi dentro la vita di Martha, nel suo terrore, nella furia violenta scatenata da una scintilla. E qui, a mio avviso, sta appunto il talento di Meg Mason, che non ha “semplicemente” scritto un romanzo sulle conseguenze dei disturbi mentali – o, come erroneamente avevo pensato all’inizio, sulla fine di un matrimonio – bensì il racconto brutale, bellissimo, di che cosa sia quel terrore che costringe a letto per giorni e settimane, quella sofferenza che rende impossibile sopportare la vita; Mason porta il lettore dentro la rabbia, il vuoto, la confusione e non gli fa sconti, non cerca nemmeno di rendere il personaggio di Martha più attraente per il pubblico per creare un’empatia fra lettore e protagonista; no, Martha ci respinge a tratti, è estenuante, difficile, scostante, quasi impossibile da capire e ancor di più da amare. È umana, fatta di carne e sangue. Non ho mai creduto che per apprezzare un romanzo sia necessario empatizzare col protagonista, entrare in sintonia, o non avremmo capolavori come La fiera delle vanità, per esempio, o per fare un paragone più recente Le benevole di Littell. Quello che vogliamo – o perlomeno quello che voglio io – è la vita sulla pagina, la complessità dell’essere umano. E in questo senso Martha Friel corrisponde esattamente alla descrizione. 

I disturbi mentali sono una tematica molto delicata da trattare mediante la fiction ma, sottolineo ancora, Mason riesce a mio avviso a farlo con la dovuta incoscienza, in una narrazione non edulcorata, mai rassicurante. Il centro nevralgico è Martha, il suo vivere la malattia, ma da qui si diramano molte altre storie e riflessioni, pur tenendo ben salda la rotta della narrazione. Anche l’impatto della malattia sulle persone che la circondano è filtrato dagli occhi di Martha, dalla sua personale esperienza, ed è uno sguardo per forza di cose soggettivo e parziale – sarebbe stato un disastro a mio parere costruire un romanzo come questo utilizzando un punto di vista esterno e onnisciente – che difetta e al quale manca la visione completa delle cose. Quando l’avrà, forse, molti dei pezzi troveranno un senso se non una collocazione e anche le persone intorno a lei assumeranno contorni più netti, tridimensionalità oltre le apparenze e i ruoli che lei gli ha attribuito. Come a lei stessa ha attribuito una definizione: «una persona complicata e troppo sensibile», la cui vita è intervallata da episodi, forse isolati o, più probabilmente, «perle distinte su un unico, lungo filo».

Quando alla fine la malattia trova una diagnosi, un nome, è un’ulteriore bomba che esplode al centro della famiglia e travolge tutti, per ragioni diverse da quello che si sarebbe portati a credere. Una malattia che l’autrice evita di menzionare direttamente: per Martha la diagnosi è fondamentale, riconoscersi finalmente le restituisce in un certo senso il controllo su sé stessa; per noi, sapere di quale malattia si tratti, darle un nome, non ha importanza. È una e tutte le malattie mentali che ci possono venire in mente. Non era facile muoversi tanto abilmente in una tematica così complessa e delicata, eppure Mason ci riesce e ad essa intreccia ulteriori spunti, con lo stesso sguardo diretto, crudo. Anche – e soprattutto – quando si tratta di prendere una posizione scomoda, come nei confronti della maternità, uno spunto narrativo che negli ultimi anni pare affrancarsi da quell’aura mistica e farsi anche qui carne, sangue, sentimento complesso. 

Ne L’opposto di me stessa più che di maternità è proprio di madri che dobbiamo parlare: di sangue o per scelta, distanti e manchevoli, lamentose, perdute e idealizzate. Celia, la madre di Martha, artista fallita, alcolizzata, stravagante e distante, custode di segreti; sua sorella, la zia Winsome, maniaca dell’ordine e delle apparenze, forte come l’acciaio; Ingrid, la sorella di Martha, che mette al mondo un figlio dopo l’altro ostaggio del caos della propria vita domestica o forse è solo una maschera. Ma quando a diciassette anni ti hanno fatto capire chiaramente che la maternità non è compatibile con i disturbi mentali, qualcosa si rompe, per sempre, e diventa impossibile pensare di essere madre quando anche il ruolo di figlia – e di moglie, di sorella – ti riesce ancora così difficile.
Ed ecco, verso l’epilogo, ogni cosa sulla maternità e Martha diviene più chiara (saltate pure la citazione se credete sia a rischio spoiler) e quello che noi, pubblico attento, avevamo intuito nei gesti e nelle premure verso i nipoti collidere con le parole pronunciate, trova una definizione:
Avevo diciassette e diciannove e ventidue anni ed ero ancora una bambina che non pensava che i medici potessero sbagliarsi, o non sospettavo che potessero mettermi in guardia contro una gravidanza non tanto perché il farmaco fosse pericoloso, ma perché nella loro mente quella pericolosa ero io. Per me stessa, per un bambino, per i miei genitori, per le loro eccellenti e immacolate carriere professionali. Sotto il loro controllo, non un solo bambino imprevisto sarebbe nato da una ragazza mentalmente malata. (p. 293)
È un romanzo, come avrete intuito, così denso, stratificato e importante che sento di averne a malapena scalfito la superficie in questa analisi, di cui vi ho mostrato solo i pezzi più evidenti, gli spunti imprescindibili, ma sul quale ci sarebbero ancora molte altre parole da dire. A partire dagli uomini che gravitano intorno a Martha, padri di sangue o padri putativi, sull’amore – in ogni sua forma, non certo solo sentimentale – che forse non ci salva da noi stessi ma molto spesso è un faro nel nostro mare in tempesta, sui segreti che custodiamo convinti che negare un nome alle cose le annulli, sulle famiglie, il bene e il male che ci fanno. E, forse, perfino sulla scrittura. Che sicuramente non ci salverà neppure lei, ma è ancora il mezzo ideale per guardare dentro l’abisso.