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Se Pablo Picasso è "Il pittore che divora le donne": la libertà dell'arte e dell'amore contro ogni forma di fondamentalismo nell'ultimo libro di Kamel Daoud

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Il pittore che divora le donne

di Kamel Daoud
La nave di Teseo, 2022

Traduzione di Cettina Caliò

pp. 154
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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Privilegio o maleficio, esclusività o cattività: avere a propria disposizione un intero museo o un’intera mostra per la durata di una notte è una prospettiva che esalterebbe alcuni e inquieterebbe altri, un limbo di eccezionalità in cui il senso di infinito tipico dell’arte farebbe altrettanto bene il paio con la minaccia claustrofobica che ogni ambiente chiuso tende a far incombere sui suoi occupanti. Senza contare, poi, che il trascorrere delle ore porterebbe con sé anche l’inevitabile rovesciamento dei ruoli, per cui ogni osservatore diverrebbe a poco a poco, e suo malgrado, l’osservato speciale delle opere stesse (e dunque il destinatario della loro specialissima inquisizione). Che cosa accadrebbe, però, se il visitatore non fosse nemmeno un amatore qualsiasi bensì un fervente jihadista di nome Abdellah intenzionato a distruggere senza misericordia un patrimonio di dipinti, disegni, stampe e sculture? E come si complicherebbe la faccenda se l’artista di riferimento fosse nientemeno che Pablo Picasso, nome simbolo di un Novecento mitico e mitologico da profanare e annichilire proprio nella sede espositiva che ne prende il nome nella capitale francese? Quali sarebbero gli sviluppi? Come agirebbe il protagonista? Cederebbe al fanatismo e alla missione di estendere la catastrofe di Palmira ovunque "fino a purificare la terra di Dio da ciò che non è Dio", oppure desisterebbe dal suo intento?

Sono queste le premesse dell’ultimo libro di Kamel Daoud appena uscito per La nave di Teseo (che ne ha già pubblicato Le mie indipendenze e Zabor o I salmi): centocinquanta pagine in cui il magnifico PP viene chiamato in causa come Il pittore che divora le donne, e il cui operato diviene casus belli per una contrapposizione spiccatamente sensuale/sessuale – oltre che artistica, culturale ed esistenziale – tra i paesi europei e quelli detti "arabi". Un tema ben caro, come è noto, all’intellettuale e giornalista algerino, famoso per il suo punto di vista critico rispetto all’Islam e alla politica del proprio Stato d’origine, sensibile alle aspettative suscitate dalle primavere arabe e apertamente schierato dalla parte delle donne; tutte posizioni che gli sono valse ostilità da più parti, e che nel contempo ne hanno fatto una delle voci più ascoltate dalle tribune della stampa francese ed europea. 

Il riferimento all’artista che parlò di “erezione dell’occhio” non è, in questo caso, né pretestuoso né generico. Al contrario: non potrebbe essere dei più precisi. Anche perché tutto, in questo lavoro che nel 2019 ha vinto il prix de la Revue des Deux Mondes, prende le mosse da un evento realmente accaduto, ovvero la mostra Picasso 1932. Année erotique a cura di Laurence Madeline e Virginie Pedrisot, tenutasi dal 10 ottobre 2017 all’11 febbraio 2018 al Musée Picasso di Parigi (l’edizione originale del libro, Le peintre dévorant la femme, uscita per le Editions Stock, data non a caso già al 2018). È difatti proprio in quelle sale, rese a lui accessibili per una fruizione solitaria e fuori orario, che si aggira Daoud, pronto, come il Profeta, a vivere la sua personale "notte del destino", ovvero un vis à vis tra i più critici e voyeuristici della sua vita con un allestimento costituito da più di 110 dipinti, disegni, stampe e sculture; opere celebri e potentissime da contemplare come se fossero versetti e pagine di diario, con un ruolo di primo piano affidato a colei che all’inizio degli anni Trenta fu modella e amante dell’artista di Malaga, ovvero la ben più giovane Marie-Thérèse Walter. Non una mostra a caso, dunque, ma un affondo calcolato (e assai vicino nel tempo) tra scene con bagnanti, ritratti e composizioni ruotanti intorno alla figura della donna: opere ossessive e finanche ripetitive che sono espressione di una ricerca famelica e vorace, animata da un’energia erotica non altrimenti ignorabile, in cui il vitalismo sessuale fa il paio con la creazione artistica e in cui il rimando a organi del piacere, moti di passione e atti di coppia si cela ovunque attraverso allusioni mirate, forme in incognito, messaggi cifrati.

Ecco dunque che l’arte, espressione della sensibilità di un singolo ma anche del suo contesto, diventa per Daoud la cartina di tornasole perfetta per mettere uno di fronte all’altro lo stile di vita occidentale cristiano-cattolico e quello musulmano, per interrogarsi sulle caratteristiche di liceità o di empietà della pittura e delle scultura, per comprendere quanto esse vogliano/possano/debbano contaminarsi con la vita intesa come dominio dei sensi o astenersi da ogni allusione a quanto di corporeo e materiale le distingua da un aldilà ben più desiderabile (e anzi luogo deputato al corpo e alla soddisfazione di pulsioni e languori). Tutto, dal ritratto di una donna estenuata e appagata dall’amore a una scena di crocifissione, riporta il visitatore non solo all'operato di un uomo "vanitoso" (Pablo l'amante, Picasso l'artista, colui che ha "divorato" le sue donne prima di ascendere al Paradiso e che ha disfatto la creazione divina per ricrearla, a sua volta, da zero), ma anche e soprattutto all’evidenza del corpo e del corpo sessuato, capace di gemere di piacere o di dolore con la stessa intensità: nulla a che vedere con ciò che accade nei Paesi detti "arabi", per l'appunto, in cui il divieto di creare attraverso le immagini è un atto di rispetto nei confronti dell’unico vero creatore (Dio), e in cui può invece accadere che sia la parola, attraverso la sinuosità delle linee calligrafiche, a mimare clandestinamente e a proprio rischio quelle di una sembianza antropomorfa (si veda il capitolo Il cammino tortuoso dell'acqua, pp. 115-117, il cui incipit peraltro recita: «Picasso ha affermato, pare, che la calligrafia araba ha centrato l'obiettivo dell'arte»). Come già fatto in passato, Daoud affronta la questione avvalendosi anche di un testo paradigmatico come il Robinson Crusoe di Daniel Defoe, mettendo in luce come il punto di vista arabo, per quanto paradossale possa sembrare rispetto alla vulgata interpretativa del romanzo, non coincida affatto con quello dell’indigeno Venerdì, bensì proprio con quello del naufrago civilizzatore e moralizzatore, ed è proprio in questo senso che l’Occidente gli appare come l’incarnazione di quanto di più scandalosamente “nudo” e “crudo” (e dunque esecrabile ed emendabile) via sia. 

Con la metafora evidentemente orale e cannibale che ne caratterizza il titolo, Il pittore che divora le donne è un libro che esplora principalmente la sessualità – ora affermata, ora negata, ora sublimata – attraverso le categorie antitetiche e complementari del pasto e del digiuno, della sazietà e della fame, mostrando le conseguenze ultime della loro applicazione (derive bulimiche o astinenze radicali) in senso tanto simbolico quanto concreto. Il meccanismo erotico antropofago, la cui prima dimostrazione è data dal bacio e che viene espresso attraverso un linguaggio che a più riprese parla di caccia, predazione, sangue e smembramento, si estende a tutto ciò che può essere considerato conquista e assimilazione, e che come tale caratterizza le forme di contatto con il diverso e i processi che portano ad appropriarsi e a rielaborare con maggiore o maggiore liceità i patrimoni culturali altrui. Il confronto tra le due visioni, che scaturisce e fluisce a partire da una riflessione sull’arte – e dunque sull’arte intesa come rappresentazione o suo contrario – vive di antitesi ma anche di continui capovolgimenti di prospettiva, in cui la posizione dell’io e dell’altro, dell’uguale e del dissimile, non sono mai definite una volta per tutte. Anche per la bellezza della sua prosa, il cui una certa densità poetica si amalgama perfettamente con l’andamento esplicativo dei capitoli, quello di Kamel Daoud è un libro che si fa leggere e rileggere già sul momento, e che invita – se è concesso il gioco di parole – a “tornare sui propri passi”. A fare, insomma, come il jihadista immaginario (che vorrebbe il corpo dopo la morte e l'anima prima del trapasso) e come lo stesso scrittore, che ha bisogno di compiere più di un giro nelle sale silenziose del museo per poter concludere il tour procedendo verso la salvezza data da una rinnovata “fiducia” e non verso la distruzione di una presunta “infedeltà”, ribadendo l’intuizione che albergava da tempo nella sua coscienza; la stessa riportata sul retro di copertina, e che chiude questa notte esplorativa con il conforto di un’illuminazione remota:

«Io esco abbastanza elettrizzato da questa esperienza: sapevo di avere ragione quando, da adolescente nel mio villaggio, giunsi alla conclusione che l’erotismo è la religione più antica, che il mio corpo è la mia unica moschea e che l’arte è la sola eternità di cui posso avere certezza» (p. 146).


Cecilia Mariani